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A cent’anni dalla nascita di Frank Sinatradi Gaetano Vallini «I did it my way». L’ha cantato fino all’ultimo in uno dei suoi cavalli di battaglia e davvero ha fatto tutto a modo suo. Non gli importava di cosa pensasse la gente. Lui è sempre andato per la sua strada: notti insonni, whisky, carte da gioco, bulli e pupe, politici, persino inquilini della Casa Bianca, ma anche qualche gangster. Tuttavia si sa, le leggende sono fatte così, vivono di eccessi e di gloria vera. E su quest’ultima, quando si tratta di uno come Frank Sinatra, The Voice per gli italiani, Old blue eyes per gli statunitensi, non si discute. La sua voce calda, profonda, vellutata, capace di mille sfumature, ha saputo incantare il mondo, regalando canzoni originali e interpretazioni di brani altrui diventate patrimonio comune, da My way a Strangers in the night, da Theme from New York New York a I’ve got you under my skin, da Night and day a The lady is a tramp e a tantissimi altri classici.Ma anche come attore non era affatto male. Alcune sue interpretazioni restano indimenticabili. Tra tutte il personaggio di un tossicomane nel film di Otto Preminger L’uomo dal braccio d’oro (1955), in cui era protagonista con Kim Novak che gli valse una nomination all’Oscar, e il soldato Angelo Maggio Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann, accanto a Deborah Kerr, Burt Lancaster e Montgomery Clift, ruolo per il quale vinse l’ambita statuetta come migliore attore non protagonista. Frank Sinatra era nato il 12 dicembre di cento anni fa in New Jersey. Ma le sue origini erano tutte italiane. La madre Natalina Garaventa era originaria di Rossi di Lumarzo, in Liguria, e il padre Antonio veniva da Lercara Friddi, in Sicilia. Insomma la classica famiglia di immigrati d’inizio secolo: valigia di cartone, viaggio in terza classe, vita grama da operai, quelli che si sfondano di lavoro dalla mattina alla sera per costruire i grattacieli di Manhattan. Frank li vede crescere dall’altra parte del fiume Hudson, a Hoboken, dove i suoi hanno casa, fino a quando — sedicenne — si traferisce con la famiglia vicino a Little Italy.Ma si vede subito che il ragazzo ha uno spiccato senso dello spettacolo e non poco talento come cantante. Al liceo diventa l’animatore della feste. Ma a scuola dura poco. Il suo carattere ribelle gli costa un’espulsione. Cosa che lo costringe a trovarsi un lavoro: commesso in una libreria e operaio al porto prima delle iniziali scritture come saloon singer. Nient’affatto contento, il padre lo caccia di casa. Lo nota però Harry James, che lo vuole nella sua orchestra e nell’estate del 1939 il giovane registra la sua prima canzone, All or nothing at all. L’anno dopo si unisce all’orchestra di Tommy Dorsey con il quale incide il singolo I’ll never smile again, che raggiunge la prima posizione tra i dischi più venduti e vi resta per dodici settimane. È solo il primo di un interminabile elenco di successi, l’inizio di una strepitosa carriera che lo porterà a incidere decine di dischi, a vendere centinaia di milioni di copie, a vincere un’infinità di premi, a duettare con altri grandi e che lo vedrà calcare i palcoscenici dei teatri più prestigiosi del mondo, accompagnato dalla sua orchestra, diretta prima dal fedelissimo Bill Miller e poi dal figlio Frank Jr.. Fino all’ultima, breve esibizione nel 1995, ormai ottantenne, a Palm Spring, davanti a un pubblico selezionato di 1200 persone nel corso di una delle tante serate di beneficenza a suo nome.Nel mezzo quattro matrimoni, voci di vicinanza ad ambienti mafiosi — pare che il potente capo dell’Fbi, Hoover avesse un dossier di oltre duemila pagine — che nel 1981 gli costarono la testimonianza a un processo, ma per le quali, pur indagato, non venne mai incriminato, nonché una serie di storie che hanno contribuito alla sua fama. Tra queste, le vicende legate al Rat Pack, la “gang dei topi”, formatasi tra le luci abbaglianti di quella Las Vegas che all’epoca — erano gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta — era il miraggio di quanti aspiravano al successo o la gallina dalle uova d’oro di quelli che lo avevano già ottenuto. Il cantante è la stella del momento e attorno a lui si forma un gruppo, più o meno stabile, di amici con i quali condivide nottate e avventure. Tra i più assidui Dean Martin e Sammy Davis Jr., ai quali si uniscono talvolta Humphrey Bogart con la moglie Lauren Bacall, Spencer Tracy e Shirley McLaine. Tra bagordi e puntate al casinò, a loro merito va però un contributo alla lotta contro la segregazione razziale: evitavano di frequentare hotel e ristoranti che si rifiutavano di servire Sammy Davis Jr. perché nero. Così, pur di vantare la presenza di ospiti tanto illustri, molti locali adottarono un atteggiamento più tollerante.Molto altro, tra aneddotica e storia, ci sarebbe da raccontare sulla vita di Frank Sinatra, morto il 14 maggio 1998. Come quando Nina Krusciov, mentre il marito Nikita incontrava a Hollywood Marilyn Monroe, chiese di poter visitare Los Angeles in sua compagnia e fu il futuro presidente Kennedy a convincerlo ad accettare per ragion di Stato. Ma alla fine resta solo quella voce, unica, inconfondibile, da crooner di razza. E quelle canzoni ormai senza tempo che The Voice ha consegnato all’eternità. Brani che ancora oggi mettono i brividi. Basta riascoltare One for my baby (and one more for the road). Che altro aggiungere?(©L'Osservatore Romano – 13 dicembre 2015)
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