- Sono stanca – disse. – Quando arriviamo?
Aveva appena compiuto l’undicesimo anno di età, era brutta come la fame e cattiva come la miseria, ma suonava divinamente il flauto e scuoiava uno scoiattolo nel tempo in cui cantava Maramao perché sei morto.
- Non lo so, pulce, non frignare – rispose Sara, sorella maggiore.
- Sei cattiva! Io mi fermo qui – disse Lalia sedendosi. Si strinse le gambe al petto facendo scivolare fuori dalla gonna le ginocchia ossute.
- Se ci fosse nostro padre non faresti così. Te ne approfitti perché sono troppo buona e non uso la cinghia!
Lalia sbuffò. – Tanto non riesci a prendermi, sei lenta.
- Non farmi arrabbiare, pulce, ci riposiamo cinque minuti e ripartiamo, capito?
Lalia era sempre stata insofferente a qualsiasi tipo di ordine e non gradiva affatto che la sorella usasse quel tono.
- No! – gridò. – Ho sete, ho fame e sono stanca, capito?
Sara sbuffò e si piantò le mani sui fianchi. – Oh, va bene – cedette. – Alla prossima casa ci esibiamo in cambio della cena. Ora alzati.
Lalia valutò attentamente le parole della sorella e non ci trovò alcun inganno, perciò si alzò in piedi e riprese mesta mesta a camminare.
Era una grande casa, con un grande portico e un giardino molto curato. Spiccava nella valle come uno scoglio in mezzo al mare, ma le giovani musiche non si fecero impressionare. Lalia iniziò subito a suonare il flauto mentre Sara l’accompagnava danzando col tamburello. Il sole era basso e le lame di luce radente s’impigliavano tra i loro capelli.
Non passò molto tempo che dalla casa uscirono due ragazzi, seguiti da un uomo e una donna. Avevano lo stesso sorriso, tutti e quattro.
- Buonasera, signori, omaggi! Una danza per un piatto caldo! – cinguettò Sara. Lalia aveva già l’acquolina in bocca. Non ne poteva più di carne secca e pane raffermo.
La prima a farsi avanti fu la donna. Sembrava sul punto di spezzarsi, come una corda di violino troppo tesa, ma la voce era gentile quando le invitò a unirsi a loro per la cena.
- Sarà servita nel portico – disse, poi posò la mano sulla spalla di Lalia e la sospinse tra le colonne sottili, accompagnandola al tavolo già pronto per il desinare.
- Grazie di cuore – bisbigliò Sara.
In principio erano entrambe molto nervose. Il padre aveva insegnato loro a diffidare dei bianchi troppo cortesi, quindi il senso di colpa si mescolava al cibo guastandone il sapore. Con il procedere della cena, tuttavia, iniziarono a sentirsi a proprio agio. I ragazzi le facevano ridere e la donna era molto premurosa. Solo il padre le metteva a disagio. Quello strano sorriso continuava a deformarne il volto mentre masticava in silenzio. Se parlava era per fare domande sulle loro origini. Sara era sempre pronta a rispondere con educazione, ma a Lalia tutta quella storia non piaceva. Perché s’impicciava dei loro affari? Che gliene importava della loro famiglia? Nell’aria dolce di primavera si intuiva qualcosa di orribile e marcio. Finì in fretta la carne e accettò l’insalata a malavoglia. Iniziò a scambiarsi occhiate con la sorella e capì che anche Sara avvertiva qualcosa. Tutte e due avrebbero voluto schizzare via di lì il più rapidamente possibile, ma come?
Lalia iniziò a pensare freneticamente, cercando di razionalizzare il terrore che l’aveva colta all’improvviso. Era il suo corpo che le stava dicendo qualcosa. I suoi sensi volevano che ricordasse. Ripensò ai giorni di viaggio, alla posizione del sole e delle stelle, alle storie con cui si addormentavano accanto al fuoco.
- Sara – disse in un bisbiglio, – siamo troppo a sud.
In quel momento comparve una domestica con un vassoio coperto.
- Grazie, Matilde – disse l’uomo. – Piccole girovaghe, dovete assolutamente provare la nostra specialità, è il piatto più gustoso del mondo – disse sollevando il coperchio.
Lalia aveva gli occhi incollati sulla faccia dell’uomo e aveva notato benissimo la smorfia con cui aveva detto girovaghe. Tutti i girovaghi imparavano molto presto a riconoscere il disprezzo sulla faccia delle persone. Poi abbassò lo sguardo sull’ultima portata del pasto e iniziò a tremare. Sul vassoio d’argento, sanguinolenti in una cornice di frutta secca giacevano due cuori, e Lalia seppe senza alcun dubbio che erano cuori di cervo.
- No, grazie, sono piena – disse. – Anzi, dobbiamo scappare – aggiunse tirando Sara per la manica.
L’uomo si alzò, aveva smesso di sorridere. – Permettetemi di insistere.
- Va bene – disse Lalia trattenendo un gemito, affondò le dita nel cuore afferrandolo saldamente e sorrise.
- Corri! – gridò subito dopo schizzando in piedi. Sara rovesciò indietro la sedia e la prese per mano, lanciandosi a rotta di collo giù per il giardino, verso la strada.
- Prendetele! – sentirono gridare.
Lalia pensava più forte di quanto corresse. Erano finite troppo a sud, in pieno territorio segregazionista.
- Dobbiamo raggiungere il fiume – gridò Sara col fiato corto. – Se passiamo il fiume non ci seguiranno.
Così si tuffarono in mezzo ai campi di grano, lasciandosi nascondere dagli steli altissimi. Le spighe le graffiavano la faccia, ma Lalia non rallentò. Il sole era tramontato e presto sarebbe stato buio. Non sentiva più le grida degli uomini e per un attimo pensò che forse la notte le avrebbe protette. Poi vide le torce.
Le stavano accerchiando in silenzio e il fiume era troppo lontano. Tirò la mano della sorella interrompendo la corsa. Dovevano pensare. Continuando a scappare in quel modo sarebbero finite in trappola.
Il campo era silenzioso. Si sentivano solo il frinire delle cicale e le voci che gli uomini si scambiavano di tanto in tanto, per avanzare compatti. Di certo erano più di un uomo e due ragazzi, rifletté Lalia. Probabilmente avevano mandato un segnale richiamandone altri.
Si accucciarono sulla terra umida cercando di riprendere fiato senza fare rumore. Lalia aveva i muscoli tesi, pronti a scattare. La sua mente pensante aveva lasciato spazio all’istinto e si sentiva tutt’uno con le proprie membra. Avrebbe potuto correre per giorni, cacciare e nutrirsi di carne cruda. Annusò l’aria e il puzzo di un uomo ubriaco le investì le narici. Cercò la mano di sua sorella per tornare a fuggire, ma Sara si liberò dalla sua stretta.
- Scappa – bisbigliò, e si alzò in piedi.
Lalia rimase paralizzata. Sua sorella stava camminando dritta verso le torce. Non emise neanche un gemito mentre si nascondeva, appiattendo il ventre contro la terra.
La cosa più difficile fu aspettare che finissero. Avevano preso Sara e l’avevano portata in una vecchia cascina poco distante. Le grida echeggiavano per tutta la valle ma nessuno sarebbe andato a salvarla. Se anche qualcuno avesse provato pietà per lei, avrebbe pregato in solitudine.
Lalia rimase nascosta molto a lungo, finché la luna fu alta e piccola nel cielo. Cercò di scacciare le lacrime e di essere razionale, come diceva sempre suo padre.
Aveva perso lo zaino, ma aveva ancora una piccola saccoccia con un po’ di cibo, un acciarino e alcune radici curative. Aveva il suo coltello, molto affilato, e in mano stringeva ancora convulsamente il cuore di cervo che aveva afferrato per guadagnare pochi secondi di vantaggio. Il cuore avvelenato che avrebbe dovuto mangiare, e che le avrebbe dato una morte rapida, misericordiosa. Come avevano potuto spingersi tanto a sud? Non gliel’aveva forse detto, il padre, mille e mille volte? L’unico vero pericolo per un girovago è l’odio degli uomini, così aveva detto, raccontando di come i cuori di cervo avessero accompagnato fin troppi giovani nel ventre della terra.
Lalia sentì una calma ghiacciata scenderle in corpo. Incurante del sangue ripose il cuore nella saccoccia, si imbrattò viso e braccia di fango grumoso e strisciò vicino alla cascina. Sua sorella aveva smesso di gridare.
Rimase acquattata, nascosta dal grano, finché tutto non fu buio e silenzioso. Aveva contato cinque uomini, uno dei quali era rimasto di guardia e beveva vicino a un fuocherello, appena fuori dalla cascina. Lalia aspettò quieta, gli occhi da donnola che scrutavano senza posa lo spazio che la separava da Sara, mentre sminuzzava il cuore avvelenato riducendolo a una pappa molle.
Finalmente la sentinella si allontanò. Lalia corse alla postazione incustodita senza fare il minimo rumore, versò la carne sanguinolenta nel bicchiere e tornò a nascondersi nell’ombra.
Appena in tempo. L’uomo tornò in fretta al suo bicchiere e riprese a bere. Fece una smorfia e sputò. Bevve di nuovo. Lalia trattenne il respiro. Prima che sentisse il bisogno di riempire i polmoni, l’uomo era stramazzato a terra artigliandosi la gola.
Aspettò ancora un paio di minuti, poi estrasse il coltello e si avvicinò alla cascina. La guardia era morta. Si affacciò alla porta e sentì russare. Aspettò che gli occhi si abituassero all’oscurità e vide sua sorella. Era legata a una colonna di legno. Le avevano strappato di dosso i vestiti e il volto era una maschera di sangue, ma poteva ancora essere viva.
Strinse le labbra in una fessura. Forse sarebbe riuscita a tirarla fuori di lì senza fare rumore, ma era improbabile, e comuque non voleva. Si decise in un attimo, e prima ancora che la sua mente potesse produrre un’eco di quel massacro, stava già tagliando a fondo la gola dell’uomo che giaceva ai suoi piedi. Sentì un gemito strozzato e un gorgogliare umido. Gli occhi strabuzzati la fissavano con odio e Lalia sorrise. L’uomo era morto e gli altri dormivano ancora, ignari. Ne restavano tre.
Incise in profondità la gola del primo, uno dei ragazzi della casa, passando il coltello avanti e indietro, come se tagliasse l’arrosto.
A quel punto il secondo uomo si svegliò sussultando. Il padre? Lalia intravide un movimento con la coda dell’occhio e si fermò, smettendo persino di respirare. Era molto buio, ma nell’oscurità immobile sentiva un ansimare incerto.
Forse se fosse rimasta ferma e zitta si sarebbe riaddormentato, e lei avrebbe potuto portare fuori sua sorella senza fare chiasso. Ma nel suo giovane cuore aveva deciso di macellarlo come un maiale.
Afferrò un sassolino e lo lanciò con forza alla sua sinistra, poi scattò avanti brandendo il coltello. Sentì l’uomo che si girava verso il rumore e in un attimo gli fu addosso. Si appoggiò sul pugnale con tutto il corpo, come le aveva insegnato suo padre, trapassandogli il cuore.
- Chi è! – gracchiò una voce nel buio. Il terzo uomo.
Lalia iniziò a piagnucolare. – Mi sono persa – singhiozzò. – Non trovo più mia sorella – aggiunse, e quasi poteva vedere il ghigno che compariva sul volto dell’uomo.
- Vieni qui, piccola, ci pensiamo noi a te, vero Teo?
Tirò un calcio contro qualcosa di morbido. – Teo!
- Teo non può più parlare – sibilò Lalia.
Ruotò il coltello portando la lama tra le dita, ne soppesò un attimo il bilanciamento e lo scagliò.
Sentì un grugnito e un tonfo.
Cinque, pensò, dovrebbero essere tutti. Poi corse dalla sorella. Le accostò il viso al petto e sentì che respirava ancora. A tentoni riuscì a trovare una lampada. Aspettò alcuni minuti in completo silenzio e si decise infine ad accenderla.
Rimase un po’ colpita da tutto il sangue che imbrattava il pavimento, ma sapeva di doversi concentrare. Recuperò il coltello e tagliò le corde. Vacillò sotto il peso della sorella, che era già una donna fatta, ma non la lasciò cadere. L’agganciò per le spalle e la trascinò fuori dalla cascina, nell’aria tiepida della notte.
- Aspettami qui, ora – bisbigliò, – torno subito.
Rientrò a recuperare acqua e cibo. Trovò anche della corda e delle coperte. Trascinò tutto fuori, osservò la luna e decise di avere ancora un po’ di tempo. Con le coperte improvvisò una barella, su cui sistemò alla meglio la sorella svenuta. Avrebbe voluto pulirle le ferite, ma dovevano allontanarsi il prima possibile. Si aggiustò sulle spalle una specie di fagotto con l’acqua e il cibo, si passò sotto le ascelle il tiro della barella e prese a camminare verso il fiume.
Non sapeva per quanto avrebbe retto. Era molto muscolosa per essere una ragazzina, ma era anche molto giovane e stanca, aveva una paura terribile e temeva che la sorella scivolasse fuori dalla barella, anche se l’aveva legata stretta.
- Sara? – provava a chiamare di tanto in tanto, ma le uscivano solo dei singhiozzi affannati che non ricevevano risposta.
Superò il campo di grano e una macchia di acacie, poi finalmente sentì l’odore dell’acqua. A est il cielo iniziava a schiarirsi e le allodole prendevano a cantare.
Aggrottando i lineamenti in una smorfia esausta avanzò ancora di qualche metro e stramazzò sull’argine. Non sarebbe mai riuscita a guadare il fiume con sua sorella da trascinare a peso morto. Presto sarebbe sorto il sole, altri sarebbero accorsi alla cascina e avrebbero visto il massacro, e allora… forse era meglio uccidersi subito, pensò asciugandosi con rabbia una lacrima.
- Sara, ti prego, svegliati – disse di nuovo, e scoppiò in singhiozzi.
Fu allora che, oltre il velo delle lacrime, vide passare un barcaiolo.
- Vi prego fermatevi! – gridò subito. – Mia sorella sta male, dobbiamo attraversare il fiume!
Il vecchio la fissò per un attimo, poi si voltò dall’altra parte, guardandosi intorno.
Lalia non si fermò a pensare. Afferrò il coltello e lanciò il suo giovane corpo giù dall’argine. Un attimo prima di toccare l’acqua spiccò un balzo e atterrò accanto alla barca, riuscendo ad afferrarla. Veloce come una lontra si issò a bordo, gocciolando.
- Accosta o ti sgozzo, vecchio – disse brandendo il coltello.
Il vecchio ammiccò. – Girovaghe, eh?
Cercò di resistere il più possibile, ma la barca ondeggiava dolcemente e il vecchio canticchiava con timbro di basso, il sole tiepido le asciugava i vestiti e le palpebre calavano immergendola in un rosso confortante.
- Eh, poverine, come le hanno ridotte, quei vigliacchi schifosi, razzisti immondi, ci vorrebbe la ghigliottina, lo dico sempre io, la ghigliottina per quei maiali senza fegato pezzi di…
- Tesoro, si è svegliata – sentì dire al vecchio.
Lalia si tirò a sedere, le facevano male la pancia, le braccia, le gambe. Anche le mani. Si sentiva pulita, odorava di bucato.
- Sara? – chiamò.
Vide il barcaiolo abbassare lo sguardo. Doveva averle portate in salvo, dopotutto. Una vecchia che aveva l’aria di essere una strega le si avvicinò porgendole una tazza fumante.
- Ecco, prendi prima un po’ di tè, piccola, un buon tè prima di vedere la tua povera sorella.
- Non lo voglio – rispose, di nuovo all’erta. – Sara! – sbottò alzandosi dal giaciglio. Dov’era il suo coltello?
Si guardò attorno freneticamente e sentì che gli occhi pungevano di lacrime. Il vecchio faceva avanti e indietro per la stanza, le mani incrociate dietro la schiena. La vecchia scosse la testa, le labbra tirate, poi le andò incontro e s’inginocchiò. – Mi dispiace tanto, le ho provate tutte.
Lalia la fissò negli occhi e storse le labbra, vedeva appannato, era come un giunco scosso dalla tempesta. Poi un grido sottile le uscì dalla bocca e si mischiò al vento, corse sul fiume e riecheggiò per le valli. Nelle loro case, le donne rabbrividirono e gli uomini si sentirono ghiacciare.
Bruciarono Sara e sparsero le sue ceneri al vento. Lalia rimase col barcaiolo e la moglie, ma non fu mai felice e dopo pochi anni, quando iniziava appena a diventare una donna, si lasciò morire. Lungo le valli del fiume Levenna, per molti e molti anni a venire, si raccontò di uno spirito assetato di vendetta, che attirava gli uomini col suono melodioso di un flauto e li lasciava con la gola squarciata. E ogni volta che a un girovago veniva offerto un cuore di cervo, e moriva senza ragione, nel cuore della giovinezza, per alimentare l’odio e l’orgoglio delle famiglie delle valli, allora lungo il fiume si sentiva un grido sottile, che cantava una nenia di morte. E tutti sapevano che l’aurora dorata, il giorno a venire, avrebbe baciato il corpo sgozzato di un assassino.
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