
Succede, allora, qualcosa di insolito: quegli uomini e quelle donne, tutti agghindati come del resto si conveniva all'ultima scena, fino a poco prima giganti lontani in grado di urlare, piangere, ridere e litigare a piacimento, si fanno un po' più piccoli e spontanei.Socchiudono gli occhi per l'improvviso eccesso di luce, sono terrorizzati all'idea di inciampare mentre corrono fuori e dentro dai lati del palco e abbozzano sorrisi imbarazzati. Hanno la stessa espressione di una studentessa seduta di fronte al professore in attesa del voto, di un bambino che ha preso una nota e deve raccontarlo ai genitori, della signora un po' anziana che vede salire il controllore sul tram e sa di non avere il biglietto.Quel piccolo, impercettibile movimento del viso, spesso della durata di un fulmine, proprio qui, nel tempio di ciò che è finto per definizione, è una minuscola cassaforte che contiene qualcosa di prezioso, autentico. E' come una goccia d'olio in un bicchiere d'acqua. E' poco, ma non si amalgama. E' qualcosa di bello, che risalta.L'ipocrisia, quando cala il sipario, sembra un isola un po' più lontana, mentre si infila il cappotto e si prende il largo, verso la recita più lunga.
