La religione etrusca, maestra e guida di quella romana, aveva popolato di ombre di morti (lemŭres) certe cupe zone della vita soprannaturale, ma a Roma la gente colta non prendeva sul serio i racconti sull’oltretomba, i quali trovavano un terreno adatto solo nelle povere menti di vecchie sciocche e di ragazzini esaltati.
Ciononostante, Lucrezio sentì il bisogno, per rassicurare il genere umano, di dare all’apparizione degli spettri una spiegazione razionale; e se Orazio considera uno dei più sicuri indizi di animo fermo il non curarsi dei lemŭres, si deve supporre che tale fermezza non fosse così diffusa.
Anime sperdute di gente trapassata vagavano anche per gli antichi nel mondo dei vivi, a significare il loro (basso) attaccamento per il corpo perduto, o per far presente ai vivi l’angoscia di non avere una sepoltura.
Vi erano case infestate e, per quanto il proprietario cercasse di tenere basso il prezzo, non trovava né compratori né inquilini. Si credeva che quell case fossero infestate perché vi era avvenuto un delitto; l’assassino, ucciso l’ospite, ne aveva occultato il cadavere sotto terra, privandolo, oltre che della vita, anche dei giusti onori dovuti a un defunto. E il morto ritornava: si udivano gemiti e rumori strani; nel buio apparivano presenze.
L’apparizione dello spettro era talvolta accompagnata da fragore di ferro e di catene. Nessuno osava neppure avvicinarsi a quelle dimore maledette, figuriamoci abitarci, a meno che non fosse un filosofo, come quell‘Atenodoro di cui parla Plinio il Giovane in una sua epistola (si veda il mio articolo a riguardo per maggiori informazioni).
C’era chi credeva al “lupo mannaro”: alcuni uomini (versipelles) avevano il potere di trasformarsi in lupi; andavano in giro come veri lupi ad assaltare gli ovili nella notte; poi riprendevano la forma umana. Se in quelle bestiali spedizioni venivano feriti, rimaneva, nell’uomo, la ferita inferta al corpo del lupo.
Si sussurrava che certe vecchie conoscessero l’arte di trasformarsi in uccelli; messe le ali, svolazzavano malefiche nelle tenebre. Si parlava anche di strani mostri nei mari settentrionali, mezzo uomini e mezzo belve, e qualcuno diceva di averli pure visti.
La gente di mare temeva “l’uomo marino”, che saliva di notte sulle navi e le faceva inclinare; e, se vi si tratteneva a lungo, la nave andava a fondo. Streghe e vampiri penetravano insidiosamente nelle case dove si piangeva un defunto per rubare la salma e deturparla. Se ne raccontavano parecchie, dunque, e anche chi non ci credeva non si sentiva proprio tranquillo.
La maggior parte di queste credenze si infiltrarono in Roma quando cominciò l’invasione greco-orientale, ma in modo particolare negli anni delle guerre contro i pirati; le tendenze mistiche, le pratiche magiche, le più strane superstizioni vennero a contatto con lo spirito romano. Le pratiche magiche nel mondo romano sono sì antichissime, ma limitate a riti tradizionali, destinati a propiziare certe potenze oscure o ad impedirne gli influssi dannosi; si scriveva, per esempio, sulle porte delle case, Arseverse, e bastava questo a scongiurare il pericolo di incendio.
Vi erano delle formule di incantesimo contro la grandine, contro le malattie di ogni specie, contro le scottature, e Plinio il Vecchio assicura che alcune di queste in pratica avevano avuto effetto.
Antichissime erano anche le superstizioni ma, in genere, avevano il carattere puramente esteriore di un’attenzione a ciò che può essere fausto o infausto presagio; col badarvi si poteva evitare il verificarsi di qualche brutto evento. Per sempio, nell’uscire si inciampava sulla soglia: brutto segno, meglio, quel giorno, rimanere chiusi in casa; si nominava l’incendio durante un banchetto: era un’imprudenza, ma si rimediava con l’affrettarsi a buttare acqua sulla tavola. Cantava un gallo durante un convito: era meglio se non cantava, o si facevano i dovuti scongiuri, o per quel giorno si smetteva di mangiare. Quando uno faceva un brutto sogno, il risveglio era pieno di preoccupazioni. Se era avvocato e in quel giorno doveva discutere una causa importante, chiedeva un rinvio.
Se i Greci e i Romani ci appaiono molto più superstiziosi di noi postmoderni, va tenuto conto di una sostanziale differenza di atteggiamento religioso tra le due età. Il Cristianesimo condanna la superstizione; per gli antichi, invece, la superstizione entrava correttamente nel quadro dei normali rapporti tra l’uomo e la divinità. Non solo perché le antiche religioni erano formalistiche e, di conseguenza, non stabiliscono un vero e proprio credo, non impongono, cioè, una rigida regola di ortodossìa, né penetrano a fondo nella coscienza del credente, ma anche per la ragione che, ritenendosi la divinità onnisciente e disposta, per sua bontà, ad elargire agli uomini qualche frammento della sua onniscienza, si pensava che i mezzi con i quali la divinità potesse dare avvertimenti fossero infiniti; l’inciampare, il canto di una cornacchia o di un gufo, un cattivo incontro, una parola udita casualmente, un brutto sogno, un’anfora d’olio che si rovesciasse per terra, tante altre inezie, potevano aver valore di presagio. Solo i non credenti, escludendo ogni intervento provvidenziale della divinità nella vita dell’uomo, negavano il presagio e si facevano beffe delle superstizioni.
La forma più elevata con cui si otteneva dalla divinità la comunicazione, nel nostro interesse, di un po’ della sua onniscienza era l’oracolo; tuttavia, i modi di interrogare gli dei erano infiniti e la divinità non dava solo responsi, ma anche consigli spontanei.
Se riflettiamo su questo, sembrerà più comprensibile che uomini come Socrate e Demostene, per esempio, fossero superstiziosi, e ci spiegheremo il numero infinito di superstizioni diffuse tra i Greci e i Romani.
Era presagio di sventura se un cane nero entrava in casa, o una serpe cadeva dal tetto nella corte, se una trave di casa si spaccava, se si rovesciava vino, olio, acqua; se si incontravano muli carichi di ipposelino, erba che era ornamento dei sepolcri; se un topo faceva un buco in un sacco di farina. Peggio era se un simulacro divino sudava sangue, se dei corvi beccavano l’immagine di una divinità, se i pesci in salamoia, messi ad arrostire, cominciavano a far guizzi come se fossero vivi; se, per uno scherzo della natura, nasceva un cavallo con cinque gambe, un agnello con la testa di maiale, un maiale con la testa di uomo, e se un toro in corsa infilava le scale di un caseggiato e si fermava solo al terzo piano.
Grande e, se ci pensiamo, non infondata era la preoccupazione degli antichi se accadeva che sulle tenere guance di una sacerdotessa spuntasse all’improvviso la barba: quello era veramente un presagio grave. Sembrava pure una cosa tremenda che i cavalli piangessro a calde lacrime, o che una statua si mettesse a ridere sguaiatamente, o che un bue cominciasse a parlare. In questi casi si trattava di illusioni, interpretazioni autosuggestive che la fantasia eccitata di uomini superstiziosi dava a fatti in sé e per sé insignificanti.
I Romani, nel loro istinto superstizioso, temevano anche il malocchio e cercavano di allontanarlo con amuleti di varia forma; evitavano di sposarsi in certi giorni e in certi mesi; badavano a non varcare la soglia col piede sinistro. Emettevano un sibilo in presenza dei lampi di un temporale. Dice Plinio il Vecchio che quello era un rito comune a tutti i popoli; quando c’erano bagliori in cielo, in terra, tra gli uomini, era tutto un fischiettare.
Durante il banchetto, si doveva stare attenti a non far succedere qualcosa che fosse di cattivo augurio, come se il servo spazzasse il pavimento quando un commensale si stava alzando, o levasse la tavola e il repositorio mentre egli stava bevendo, o il commensale stesso lasciasse cadere in terra il cibo che teneva in mano; in tal caso, il cibo doveva esser subito restituito all’incauto banchettante, il quale doveva ben guardarsi dal ripulirlo, e anche semplicemente di soffiarci sopra. La cosa era particolarmente seria se il cibo cadeva di mano al Pontefice durante una cena rituale: si espiava subito l’infausto presagio riponendo il cibo sulla mensa e bruciandolo come sacrificio al Lare. Era di cattivo augurio che uno starnutisse proprio nel momento in cui il cameriere gli porgeva il vassoio; l’unico rimedio era che cominciasse subito a mangiare. Nei banchetti a cui i commensali partecipassero in numero dispari, il mettersi tutti zitti a un tratto preannunziava uno smacco a ciascuno degli intervenuti.
Viene riferito come una superstizione propria delle donne il tagliarsi le unghie solo quando in Roma c’era il mercato, stando zitte e cominciando dal dito indice. Quando si era al mare, non bisognava tagliarsi né le unghie né i capelli.
Alcune di queste credenze ricevevano anche un pubblico riconoscimento. In molti villaggi d’Italia era vietato per legge alle donne di passeggiare per le strade torcendo il fuso o tenendolo in vista. Guai per chi vedeva quel fuso: ogni sua speranza di buon raccolto diventava vana.
La medicina emprica dei Romani rimase sempre in parte soggetta a credenze magiche e a superstizioni; era opinione diffusa che i rimedi, a posarli sulla tavola prima che fossero adoperati, perdessero ogni effetto. Tra l’altro, come ci si liberava dai pensieri molesti, per gli antichi? Semplicemente, passando dietro l’orecchio un dito bagnato di saliva.
Molto antico è l’uso delle defissioni, i cui primi documenti in Grecia risalgono al IV secolo a.C.. La defissione è la consacrazione alle divinità infernali di un nemico. Il suggerimento di defiggere era offerto, in modo particolare, da infortuni giudiziari o familiari, o da rivalità professionali, ma non soltanto: le ragioni di defissione erano tante. Dalla Grecia, questa pratica passò a Roma.
La defissione avveniva così: in una lamina di piombo si scriveva il nome esecrato, con una formula di maledizione, affidando il defisso alle divinità infernali, e si inseriva la lamina dentro un sepolcro, più raramente in un tempio, in un pozzo, dentro una sorgente di acqua calda, di solito fissandovela con un lungo chiodo passato attraverso la lamina. La maggior parte di queste lamine, infatti, sono bucate, anche in diversi punti. In alcune lamine si legge una lunga lista di defissi; il nome dei defissi è sempre scritto con cura, per il timore che un’indicazione poco esatta renda inefficace la defissione. Al nome del defisso segue spesso il nome della madre, raramente il nome del padre. Precedono il testo a volte, o vi si inseriscono, dei segni magici, di carattere alfabetico.
L’illusione di poter fare intervenire potenze sovrannaturali nelle cose d’amore, come alleate di un cuore tradito o di una passione non corrisposta, fece sorgere le prime pratiche di stregoneria femminile. Per attrarre a sé l’amato, la donna si trasformava in fattucchiera, tanto più ostinata nei suoi incantesimi, quanto più si sentiva vecchia, brutta, disprezzata. La donna che ra vittima di un amore infelice ne tentava di tutte, dai beveroni fatti trangugiare a tradimento all’uomo di cui voleva conquistare il cuore, a mezzi più tenebrosi.
Le fattucchiere facevano paura, perché riuscivano ac acquisire una potenza sovrumana. Usavano ingredienti turpi e terribili: viscere di rana o di rospo, piume di strige, ossa di serpenti, erbe sepolcrali, potenti veleni (erano dette perciò anche veneficae) e conoscevano formule efficacissime, capaci, come scrive Virgilio, di far scendere giù la Luna dal cielo.
Written by Alberto Rossignoli
Fonte
U. E. Paoli, “Vita romana. Usi, costumi, istituzioni, tradizioni”, Oscar Mandadori, Firenze 2006