Certi nodi vengono al pettine solo inserendosi in un contesto, guardandosi attorno o mettendo a confronto più cose, apparentemente distanti.
Due cortrometraggi di Marisa Vallone (Sotto il cellophane, 2011) e Vincenzo Mineo (Full of Life, 2012) hanno così tanti tratti in comune che non si può non cedere alla tentazione di analizzarli mettendoli uno di fronte all’altro.
I punti di contatto son sopratutto tematici: il bisogno di assistenza, di spazi vitali, la malattia, il confine con l’età adulta e quello con la morte.
Entrambe le opere ruotano attorno ad una coppia (padre-figlio e uomo-donna) sul cui equilibrio interviene un soggetto esterno (la donna dei servizi sociali, l’uomo cui Maia presta assistenza). Entrambe presentano le vite dei personaggi sul limitare del cambiamento: l’imcombente malattia del padre di Augusto, che mette sempre più a rischio la sua capacità di prendersene cura; la gravidanza di Maia che da notizia negativa, la cui preoccupazione sta tutta nello sguardo nella cucina, è destinata a diventare sorriso.
Il simbolo preso come risoluzione delle due tensioni è la casa, una nuova casa dove trasferirsi e poter ricominciare, Salvo e Maia affascinati dalla bellezza degli ambienti, dalla terra piena di solchi e di intenzioni, Augusto preso e perso nel cellophane, con cui conserva la vita, l’aria, inconsciamente quella che manca al padre quando prende a tossire. C’è una scena presente in entrambe le opere, quella della vasca, Augusto e Franco, fermi nel loro bisogno di aiuto, sono aiutati a lavarsi rispettivamente dal padre e da Maia, ma la differenza con cui questa operazione viene eseguita spiega bene l’approccio dei due registi. Vallone mette in scena un aiuto distante, descrittivo, il padre spiega ad Augusto come e dove lavarsi, con gesti d’esempio: è un padre che, seppure esausto, non ha ancora smesso di insegnare, crede e spera in una crescita di Augusto, nella sua indipendenza. Franco, nell’opera di Mineo, è immobile, coi suoi occhi blu di profondissima gratitudine, qui con Maia c’è un contatto diretto, è lei a bagnarsi le mani, a strofinare. Così nel primo caso abbiamo un’ opera che rappresenta ma mantenendo in spazi (strutturali, emotivi) separati la scena e lo spettatore, non coinvolgendolo del tutto; nel secondo un’opera che, attenta al punto di vista, mette lo spettatore nell’opera, quasi affidandogli un ruolo.
Cerco di esplicare meglio quest’ultimo aspetto attraverso un’analisi più attenta della costruzione di Full of Life. Sotto il Cellophane ha un andamento lineare, segue un tempo coerente, Full of life invece mescola i piani temporali, portando avanti i fili del prima e dopo, intrecciandone la trama, facendo emergere pian piano il disegno della soluzione finale.
Lo spettatore si muove su questi percorsi, ed il suo punto di vista, le sue domande sono resi espliciti da alcune scene, che costruiscono e risolvono il suo sguardo. In principio com’è ovvio ci chiediamo chi siano i personaggi, e sopratutto chi sia lei, Mineo fa una mossa astuta: ci mette nei panni del notaio. Dopo che Maia è uscita dall’auto, passa dietro un vetro che ne moltiplica la figura, quasi un mescolare le carte: chi credi che lei sia? Questa? Quest’altra? Quale di queste? Una volta entrata nello studio del notaio (che non viene inquadrato) è lui che fa la domanda per noi, chiedendone il nome e cercando conferma nel documento d’identità. Il fatto di non inquadrare il notaio è una perfetta scelta stilistica che fa della sua voce quasi la nostra voce, grazie anche alla macchina da presa posta alla sua altezza: lì dove dovrebbero essere i suoi occhi ci sono i nostri.
Una volta certi che lei è Maia Hernandez possiamo iniziare a seguirne la storia, abbiamo tutti gli ingredienti necessari a conoscerla: veniamo a sapere di Franco Soldati e della sua morte, scopriamo che è fidanzata con un pescatore di nome Salvo, che assiste Franco e che lo aiuta ad “uscire dal suo bunker”, che vede davanti a sé una vita sbarrata e senza uscita, ma sopratutto che è incinta. Quando sappiamo tutto ciò Maia piange, si è mostrata completamente a noi, se prima aveva una faccia priva d’espressione, quasi impassibile, ora mostra il suo lato più fragile e disperato. Ciò avviene sullo sfondo di una salina, le cui vasche con tanta pazienza separano il sale dall’acqua, dividendo (o liberando) ciò che prima era unito. Maia si è liberata da Franco, l’acqua ormai priva di sale può tornare in mare e trovare Salvo, per dirgli che le sue speranze per un futuro migliore stavolta sono fondate.
Quando ormai conosciamo del tutto Maia, la voce del notaio non deve più rappresentarci, non deve più fungere da nostro corrispettivo, e allora Mineo inquadra il notaio, facendolo altro da noi, che assumiamo un punto di vista di terzi, emotivamente coinvolti. Quando tale empatia sale al suo punto più alto, quando siamo intimi spettatori della nuova felicità di Maia e Salvo è lei a riconoscerci come presenti, con lo sguardo in camera, col suo sorriso che incita al nostro.
Attraverso l’interazione con i personaggi abbiamo risolto tutte le nostre domande.
Se in Full of Life la volontà di indipendenza, di crescita, di separazione viene fuori dalla volontà di due persone mature, in cerca di un ambiente familiare, in Sotto il cellophane Augusto, nonostante l’aspetto, è un adolescente, che gioca, fa i capricci, non vuol lavarsi, che ora non vuole cambiar casa, ora lo vuole e “subito!”. È quindi pronto a vestire una vita o un’altra indifferentemente, giocando tra presenza e assenza, conservazione e perdita. La sua volontà di cambiamento è istintiva. Con le sue bustine d’aria cattura spettri di luce, cattura il tempo, con una sistematicità assoluta. Sono loro la parte fondamentale della sua vita, il suo impegno, la sua responsabilità, il suo unico spazio di indipendenza e distacco. Nella casa piena di cellophane non può che trovare il suo luogo, il suo habitat, dove nascondersi e nascondere.
Elementi ricorrenti sono il teatro (come momento di intensità in Franco, di interazione possibile per Augusto), gli sguardi che parlano, l’uso dei primissimi piani per caratterizzare i soggetti e gli ambienti.
Vallone gira in pellicola e ce se ne accorge subito, i toni sono molto omogenei, i colori mai brillanti, quella che si racconta del resto è una storia opaca, amara, che, visto il finale aperto, resta nello sfumato, di cui si fa molto utilizzo, per suggerire ma non risolvere, sopratutto nelle scene che più sconfinano nella zona d’ombra dei personaggi, come nella visione di Augusto o il finale celato in una sagoma misteriosa.
Mineo, invece, girando in digitale fa utilizzo di toni più presenti, più descrittivi e taglienti. Tutti i dettagli vengono presentati con forza: le rughe di Franco, l’aspetto umile, non particolarmente curato di Maia e Salvo.
Quello che in Sotto il Cellophane è morbido, tenue (la macchina da presa è montata su supporti) in Full of life è saturo, moltiplicato, mai placido (macchina a mano anche nelle immagini statiche).
Rivelativo è anche il sonoro, per Vallone minimalista, usato per sottolineare e non per riempire o accompagnare come è invece in Mineo, che fa uso di una chitarra acustica, acuta, malinconica, lungo tutto il corto.
Nel primo c’è un montaggio classico, esplorativo, nel secondo si preferiscono le inquadrature più lunghe, i piani-sequenza che esaltano il cambiamento di espressioni e di umori.
Le due opere, messe a contatto, mostrano tutta la loro capacità di raffigurare realtà simili ma con regimi cinematografici differenti. Realtà fatte di silenzi, resistenze, insofferenze, malattie, che il nostro cinema sembra sempre più capace di raccontare.
E forse è questa la direzione da seguire nel nostro futuro più prossimo.
Trailer di Full of life: http://www.youtube.com/watch?v=5-KfNSvf8ro