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Tra mille pericoli armata solo di un taccuino e di una macchina fotografica per raccontare quello che non si vede in televisione
di Gaetano ValliniS’intitola Nur, luce, il volume che la scrittrice, documentarista e fotografa Monika Bulaj — polacca d’origine ma italiana d’adozione — dedica all’Afghanistan come contrappunto al buio di un Paese oscurato da un conflitto infinito. Perché è di un’altra realtà che vuole parlare, ovvero dell’Afghanistan nascosto, quello che non si vede in televisione. L’intento dell’autrice è di far luce sui luoghi che stanno dietro la tragica cortina di fuoco e di sangue. E lo fa attraverso il racconto scritto e ancor più con le immagini, foto in cui la guerra non si vede direttamente, ma se ne coglie il riflesso da un filo di fumo all’orizzonte, o dalle profonde cicatrici che solcano visi e arti permanentemente offesi. Nur. La luce nascosta dell’Afghanistan (Milano, 2013, Mondadori Electa, pagine 255, euro 39) è il resoconto di un viaggio solitario durato due anni, dal 2009 al 2010, effettuato a bordo di bus, taxi, cavalli, camion, a dorso di yak, dividendo con gli afghani cibo, sonno, fatica, fame, freddo, sorrisi e paura. Armata solo di un taccuino e di una macchina fotografica, una Leica — oggetti discreti, adatti a favorire l’intimità di un incontro, di una confidenza — Bulaj è andata da Balkh a Panjshir, da Samanghan a Herat, da Kabul a Jalalabad, da Badakshan a Pamir Khord, fino a Khost wa Firing: un percorso lungo e pericoloso, dal confine iraniano a quello cinese sulle nevi del Wakhan, con il rischio continuo di imbattersi in banditi, seguendo la complessa geografia della sicurezza ormai tristemente nota a tutti gli afghani. «Il burqa da solo non basta per attraversare le gole di Nahrin, infestate dai banditi», racconta l’autrice riferendo delle difficoltà incontrate, ma anche dando conto dell’aiuto ricevuto. Ci vuole altro, le dicono: «Portamento, gesti, andatura». E regole: «Tacere, chinare il capo, intrecciare le falde del mantello, rimpicciolirsi, pietrificarsi». A Nahrin, come in altre circostanze, è stata fortunata, riuscendo a passare indenne. E a documentare così un Paese ai più sconosciuto. «Rifiutando di viaggiare con un’unità militare (embedded), protetta da un elmetto in kevlar, ho ritrovato — sottolinea Bulaj — un mondo che dalla Maillart a Bouvier gli europei amarono e che ora, dopo dieci anni di presenza militare, abbiamo rinunciato a conoscere. La culla del sufismo e di un islam tollerante che, lì come in Bosnia, l’Occidente si ostina a ignorare. Un mondo odiato dai Taliban e minacciato dal nostro schema dello scontro bipolare. Un Paese nudo e minerale, dove un albero ha una maestà senza eguali e l’individuo non ha spazio per l’arroganza. Deserti dove il richiamo Allah u Akhbar suona più puro che altrove». Quella mostrata, senza preconcetti, è una «terra abbacinante, dai cieli sconfinati, e così inondata di sole che bisogna rifugiarsi nell’ombra, interni, albe e crepuscoli, per ridare un senso alla luce, al fuoco, ai bagliori dello sguardo. Un Paese disperato, dove — aggiunge Bulaj — la donna è schiacciata dal tribalismo e l’oppio è la sola medicina dei poveri, ma dove una straniera può essere accolta in una moschea e l’incantamento dello straniero è vissuto come una benedizione. Una terra dove si rischia la vita solo andando a scuola e dove nelle periferie disperate i bambini si svegliano alle quattro del mattino per andare a prendere l’acqua con gli asini». Tuttavia, seguendo un’umanità segnata da anni di guerre e di violenze, la scrittrice e fotografa scopre anche un popolo capace di ridere persino nei momenti più bui, rispettoso della saggezza degli anziani, ma al contempo consapevole che il futuro risiede nei bambini che domani saranno uomini. E che le donne — sono molte quelle incontrare e fotografate — anche qui hanno molto da offrire in termini di creatività, intelligenza, femminile buonsenso, amore per la vita. Così, di città in città, di villaggio in villaggio, nel «giardino luminoso» dell’Afghanistan Bulaj ha trovato «focolai di speranza nei luoghi più insperati, nel fondo più nero della disperazione», come si scopre guardando le intense fotografie a colori e in bianco e nero, e leggendo gli appunti di viaggio e le profonde riflessioni che le accompagnano. Immagini e testi che svelano un mondo variegato e anche inatteso, che l’Occidente o ha dimenticato o ignora del tutto; un Paese dal fascino antico, dove non si fanno solo i conti con le tragedie e con l’anacronistico e violento oscurantismo dei talebani, ma anche una terra ricca di tradizioni, di poesia, culla del sufismo, di un islam che sa essere tollerante e rispettoso, dove «una straniera può essere accolta in una moschea e l’incantamento di chi arriva da lontano è vissuto come una benedizione».
(©L'Osservatore Romano – 17-18 marzo 2014)
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