Anno: 2014
Durata: 106’
Genere: Commedia
Nazionalità: Italia
Distribuzione: FILMAURO
Regia: Carlo Verdone
Uscita: 13 Febbraio 2014
Alcune volte, come ne testimonia la storia della migliore tradizione teatrale e cinematografica italiana, raccontare un dramma diventa molto più efficace se (sapientemente) mascherato da commedia. Totò, Monicelli, De Filippo, Scola ci hanno insegnato che argomenti come povertà, salute, fame, guerra, sessualità assumono una forza e un impatto maggiori se affrontati con toni più leggeri, ma mai superficiali. Uno di questi maestri del nostro cinema che ha ereditato e fatto suo questo bagaglio di sapienza artistica è Carlo Verdone. Un autore e attore che si è continuamente rinnovato e messo in discussione, restando sempre al passo coi tempi. Di recente visto ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino e premiato con il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista, Verdone dimostra in modo del tutto naturale la sua versatilità interpretativa e la capacità di essere diretto da altre mani e altri occhi. Tutti conosciamo i suoi film e siamo affezionati ai suoi personaggi e sappiamo bene che la sua caratteristica principale è sempre stata quella di donare, alle sue interpretazioni e alle sue storie, una grande sensibilità, dolcezza, malinconia e simpatia allo stesso tempo. Nei suoi film si muovono tante vite, sentimenti contrastanti, voglia di cambiare e un’estrema sincerità nel mettere in scena tutto ciò. Quasi in tutti, questa spinta al cambiamento è rappresentata da una partenza per un viaggio: ricordiamo l’avventura in Inghilterra sulle orme di Jimi Hendrix in Maledetto il giorno che t’ho incontrato, il viaggio a Praga con Asia Argento in Perdiamoci di vista, la ricerca del padre in Al lupo al lupo e di una ribelle Ornella Muti a Budapest in Io e mia sorella, Istanbul nel più recente Il mio miglior nemico e Parigi nell’ultimo Posti in piedi in paradiso. Per Sotto una buona stella, Verdone studia una nuova scelta, non solo stilistica ma soprattutto concettuale e, in un certo senso, “politica”. Infatti, la maggior parte del film, è stato girato nello studio 15 di Cinecittà. Verdone e la sua troupe, stavolta, decidono di restare. E il cambiamento avviene proprio qui. Dare valore a una risorsa tanto importante che l’industria italiana del cinema ha sempre vantato di aver costruito e, negli ultimi tempi di crisi etica ed economica abbandonato, è un grande segnale e spunto di riflessione sul saper sfruttare i propri mezzi a disposizione, attingere dalla fonte “buona” della nostra cultura, raccomandarsi alla nostra vera, buona stella e portare lo spettatore ad entrare dentro il film come si entra dentro a delle mura sacre.
La storia inizia con una festa di compleanno in una lussuosa casa borghese dove vediamo Federico Picchioni (Verdone) e la sua giovane compagna Gemma (Eleonora Sergio) ballare e divertirsi spensierati tra fuochi d’artificio e ospiti dell’alta società. Ad un tratto, però, il divertimento di Federico si interrompe bruscamente: riceve una telefonata dall’ospedale dove la sua ex moglie sta morendo. Una volta arrivato nella sala d’attesa incontra i suoi due figli Lia (Tea Falco) e Niccolò (Lorenzo Richelmy) e la nipotina di 2 anni (figlia di colore della giovane Lia) che, senza parole ma solo con le lacrime, fanno capire al padre che è arrivato troppo tardi. Da quel momento Federico dovrà (ri)prendersi le sue responsabilità come padre. Un padre che è sempre stato assente e che ha deciso di vivere la propria vita pensando ai soldi e al benessere effimero tralasciando i valori più profondi, l’educazione dei propri figli e la conseguente negazione del suo tempo e del suo affetto nei loro confronti. Come se non bastasse, a poca distanza di tempo, Federico perde anche il lavoro: una visita inaspettata da parte delle guardie di finanza nei suoi uffici, dove un importante dirigente viene indagato e arrestato, porta a un grave crac finanziario dell’azienda. Ogni certezza crolla e, come un burattino impazzito, Federico deve imparare a gestire il tutto, a cimentarsi in una condizione di disagio lavorativo ed emotivo che, erroneamente, non si era mai immaginato di dover affrontare. La goccia che fa traboccare il vaso è la complicata convivenza con i suoi figli che sono ancora in lutto per la scomparsa della madre e ostili verso Gemma e le sue fisse per il lusso e il design e alle prese con un padre che, tutto sommato, è a loro estraneo. La casa è invasa dal disordine, dai giocattoli della piccola bambina di Lia, dal via vai degli amici musicisti di Niccolò e dai poeti “alternativi” amici di Lia, dopo diversi episodi tragicomici che causano persino il licenziamento della buffa colf filippina e l’ennesimo litigio con Gemma, Federico si ritrova solo…nei panni di un vero e proprio mammo casalingo. Il destino, però, ha spesso in serbo parecchie sorprese e non tutte sono negative. Una nuova vicina di casa, Luisa (Paola Cortellesi), si affaccia sulle vite di questa famiglia in difficoltà e sembra esserne il pezzo mancante. Spacciandosi inizialmente per un’operaia rumena (potete benissimo aspettarvi delle gag geniali da parte della Cortellesi, in questa scena e moltissime altre) questa donna un po’ pazzerella dimostra di possedere un animo gentile e, con la sua spontaneità, saprà mediare tra i rapporti di Federico e i suoi ragazzi portando un piccolo, grande spiraglio di luce e speranza in mezzo a tanta confusione e solitudine. Il personaggio di Paola Cortellesi rispecchia molto la natura di questa fantastica attrice. Brillante, elegante ma semplice, forte di carattere e con una sfumatura un po’ infantile. Il mestiere della sua Luisa non è dei più felici: ella, infatti, è una risanatrice di aziende, o per peggio dire, una “tagliatrice di teste” e questo contrasto tra la sua dolcezza e la spietatezza del suo lavoro, dona al personaggio una duplicità molto interessante e commovente.
Del resto Verdone ha sempre saputo valorizzare le attrici con cui ha lavorato e ha saputo inventare e far indossare a donne sempre una diversa dall’altra, dei ruoli femminili alla perfezione. Molto probabilmente, i personaggi femminili più belli del cinema italiano, possiamo ritrovarli proprio nel suo cinema. E quando un’attrice viene diretta da uno sguardo intelligente e sensibile come il suo è anche in grado di amplificare la propria bellezza e bravura. Realtà e finzione si mescolano a pennello: così come i personaggi devono imparare ad interagire tra di loro anche gli attori hanno dovuto farlo. È necessario sapere che la commedia si muove su equilibri molto sottili: i tempi sono fondamentali per la comicità e basta una misura sbagliata di un millimetro e quell’equilibrio si distrugge. Verdone è un maestro e, in questo caso, ha variato ancora una volta registro anche nel casting e ha trovato il suo corrispondente femminile in Paola Cortellesi in modo da poter sia improvvisare che costruire una scena più difficile a un livello paritario in quanto a preparazione in termini professionali e di affinità puramente artistica.
Una atipica strana coppia alla Lemmon-Matthau, che ricorda vagamente le atmosfere del famoso film di Gene Saks anche perché girato quasi esclusivamente in interni. Un’altra importante costante del cinema di Verdone è la coralità, sviluppatasi negli anni della sua carriera diventando una peculiarità del suo cinema (un famoso esempio su tutti è l’amaro Compagni di scuola e il delicato Ma che colpa abbiamo noi) parallelamente alla sua generosità. Per un attore e un regista, e a maggior ragione per un attore, autore e regista allo stesso tempo, cedere lo spazio ad altri personaggi con la stessa intensità (anzi, con un’intensità addirittura maggiore) e, ancor di più, ad attori esordienti e talentuosi e ad altrettante giovani maestranze è una dote preziosa e un ammirevole gesto umano e professionale. Verdone ci tiene a sottolineare di aver lavorato su un set circondato da ragazzi di 26, 27 anni assistenti alla fotografia, scenografi, operatori, ecc…, e di essersi trovato benissimo, ringiovanito e di avere respirato con sollievo una boccata d’aria fresca, mettendoci un impegno diverso che ha indotto sì, il film a una più lunga gestazione, ma a una grande soddisfazione nel risultato finale. Anche agli stessi Tea Falco e Lorenzo Ralchemy è stata data questa possibilità e fiducia e non hanno di certo deluso le aspettative. Entrambi i personaggi sono pieni di sfaccettature e interessanti nella personalità, nelle reazioni, nell’estetica dei primissimi piani. Non a caso, a mio intimo parere, le due scene più belle di Sotto una buona stella sono state affidate a loro. Una, dove vediamo il giovane Niccolò alle prese con un’audizione per cantautori emergenti: si spengono le luci sul palco e partono le note di una bellissima canzone scritta da Federico Zampaglione appositamente per la colonna sonora del film (interpretata da Ralchemy nella scena, e da Michele Bravi nel disco della OST ufficiale). Il ragazzo non viene affatto ascoltato dai giudici presenti all’audizione, ma dal padre…che, di nascosto, è entrato nel teatro per ascoltare, per la prima volta, la musica di suo figlio. Alla fine della canzone, partirà un monologo di Verdone da standing ovation (una critica che vuole espandersi oltre la finzione, a chi amministra l’arte e alla superficialità della società…), che inveirà in difesa di Niccolò contro i distratti giudici incompetenti e, da quel momento in poi all’interno della storia, il rapporto padre-figlio sarà finalmente risanato e ricolmo di tenerezza. L’altra, è una scena di particolare bellezza ambientata nel cimitero acattolico di Roma, dove sono sepolti alcuni dei nostri poeti e scrittori ma, soprattutto, famosi poeti inglesi tra cui John Keats la cui lapide recita la frase: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”. La ragazza si trova assieme a Richard (Simon Blackhall) con cui, a breve, nascerà una storia d’amore e in quella silenziosa cornice che a molti potrebbe apparire come macabra, agli occhi dei due innamorati e di Lia, poetessa anch’ella, tutto sembra magico, romantico e serio come la poesia (e la morte…) stessa.
La suggestione complessiva è più che una suggestione, è un’opera molto ricca che ha il coraggio di affermare quanto sia importante un punto di riferimento, di accudimento e affetto in un periodo storico di grande solitudine, che dà spazio a squarci d’ombra e di luce (cede il passo al fedele direttore della fotografia Danilo Desideri, il maestro Ennio Guarnieri che diresse per Verdone Un sacco bello e Borotalco) a favore di una precisa improvvisazione recitativa e della delicatezza e non invadenza dell’occhio della macchina da presa, all’intimo legame d’amicizia tra schermo e spettatore. Quel legame è tanto semplice quanto fondamentale: è una risata, un sorriso. È un grande abbraccio.
Giovanna Ferrigno