Sottotitolare “The Orator – O Le Tulafale”

Creato il 13 febbraio 2012 da Giuseppemanuelbrescia

Qualche mese fa mi è arrivata una telefonata dalla Nuova Zelanda. Philip Saffery di Toitereo Linguists cercava un traduttore italiano per sottotitolare un film. Ero entusiasta. Era da un po’ che andavo a caccia di opportunità in quel campo, senza fortuna. Dimmi di più, gli ho detto. La cosa si è fatta sempre più interessante. Il film si intitolava  The Orator – O Le Tulafale, il primo lungometraggio samoano interamente girato a Samoa, con un cast samoano, in lingua samoana. Nientemeno che un film storico. Confesso che non sapevo molto di Samoa, nonostante qui in Australia viva una notevole comunità samoana. Chiaramente Philip, che ha trascorso anni in Polinesia e parla correntemente te reo Maori ed altre lingue polinesiane, si era già occupato dei sottotitoli inglesi, quindi si trattava in sostanza di una traduzione dall’inglese all’italiano.

Ciononostante, potrete immaginare che un film sulle tradizioni samoane presenti non poche sfide per una persona che non sa molto di quella cultura. Per fortuna Wikipedia e Google danno accesso ad una cornucopia di informazioni mica da ridere, e nel giro di un paio di giorni sono diventato, seppur temporaneamente, una specie di esperto di storia, politica e costume samoano. Mi ricordo ancora le informazioni fondamentali, ma purtroppo, come molti altri traduttori, tendo a ripulire la mia cache di tanto in tanto, per far spazio a quel che mi servirà avere a portata di mano per il progetto successivo.

Lavorare a dei sottotitoli è stata un’esperienza nuova per me, e me la sono davvero goduta. Tutt’altra cosa rispetto al tradurre letteratura, dato che quel formato impedisce non solo di utilizzare note e spiegazioni, ma a volte richiede una compressione del testo d’arrivo così che possa risultare leggibile per il pubblico nei brevi momenti in cui rimane impresso sullo schermo. David Bellos ne parla nel capitolo 12 del suo interessantissimo e divertente Is That a Fish in Your Ear? nel quale ci dice anche che

Ormai è una convenzione pensare che lo spettatore medio sia in grado di leggere soltanto 15 caratteri al secondo; e [...] non si possono inserire più di 32 caratteri alfabetici in una riga. Inoltre non si possono mostrare più di due righe alla volta senza coprire una porzione significativa dell’immagine. [...] il sottotitolatore ha circa 64 caratteri a disposizione, spazi inclusi, che possono restare sullo schermo al massimo pochi secondi e che devono esprimere i significati chiavi di un’inquadratura o di una sequenza nella quale i personaggi spesso dicono molte più cose. [...] è davvero incredibile che già si possa fare.

Bellos ha ragione, ma in realtà la maggior parte delle volte riesci a risolvere con una certa naturalezza se sei un bravo traduttore. Per fortuna in questo  film non ci sono conversazioni troppo rapide. Il film usa un tipo di dialogo piuttosto formale, spesso molto poetico e simbolico, cosa che ha semplificato non poco il lavoro da questo punto di vista. Contare le sillabe dell’originale samoano e quelle dei sottotitoli inglesi, ad esempio, era un modo per verificare che i miei sottotitoli non fossero troppo prolissi. Il problema era piuttosto l’impossibilità di usare delle note per termini ed usanze samoane con le quali non avevo nessuna familiarità.

Per fortuna i produttori avevano preparato un esauriente press kit per gli addetti ai lavori, per spiegare alcuni degli elementi culturali e delle usanze samoane a critici e giornalisti occidentali. Il press kit ha giocato un ruolo molto particolare nel processo di traduzione, dato che era parte del mio lavoro tradurlo, con tutti i problemi di cui ho appena parlato, ma d’altro canto con le sue spiegazioni mi ha anche aiutato a destreggiarmi fra gli elementi culturalmente specifici del film. Inoltre, sapere che gli spettatori al Festival del Cinema di Venezia avrebbero avuto a portata di mano quelle informazioni ha aiutato a contenere il panico di un povero traduttore che non poteva usare note e non aveva neppure spazio per le parafrasi.

Prendiamo ad esempio le complesse strutture sociali contenute nella parola samoana  ”matai”:

I Matai sono i detentori di titoli onorifici. Si dividono in due categorie, i capi veri e propri o alii;  e i capi oratori (tulafale).  Anche le donne si dividono in due categorie, faletua e tausi, faletua le mogli dei capi, e tausi, le mogli degli oratori. Gli uomini privi di titoli (chiamati taulele’a se presi singolarmente) vengono collettivamente chiamati ‘aumaga;  le donne prive di titoli, comprese le donne non sposate o le mogli di uomini che non detengono alcun titolo, vengono chiamate con il titolo onorifico le nuu o tama’ita’i (letteralmente ‘il villaggio delle donne’) e collettivamente aualuma. Ognuno di questi gruppi [ossia Alii e Faipule ovvero i matai; faletua e tausi ovvero le mogli dei matai; gli ‘aumaga ossia la comunità degli uomini privi di titoli, e le aualuma, ossia la comunità delle donne prive di titoli] ha un ruolo specifico nell’organizzazione del villaggio. 

Non è poi così difficile, lo so, ma è una struttura così radicalmente diversa da quella della società australiana o anche da quella assai più tradizionale dei miei parenti nel sud Italia, che già mi sembrava parecchio complessa e basata sull’onore! Nei sottotitoli non c’è spazio per spiegare nulla di tutto questo. Prendiamo un’altra tradizione samoana presente nel film, l’ifoga:

Si tratta di un rituale dove chi reca offesa supplica il perdono di chi ha subito il torto. Alla base dell’ifoga stanno tre elementi: il rimorso e la vergogna dei responsabili, l’estensione della responsabilità alla famiglia e all’intero villaggio, e il perdono della famiglia della vittima. Tradizionalmente i colpevoli si inginocchiano, coperti da stuoie di pregiata fattura. Gli offesi dimostrano il proprio perdono quando si avvicinano all’ifoga e tirano via le stuoie.

L’ ifoga rappresentato nel film dura per giorni, i colpevoli si inginocchiano sotto le stuoie, e sotto una pioggia torrenziale, resistendo al sonno finché la vittima del loro bullismo non esce a perdonarli. Senza una spiegazione, e a causa dei limiti di spazio e di tempo imposti dai sottotitoli, uno spettatore occidentale  sarebbe stato del tutto confuso da questa scena. (“Ehi, ma cosa fa sotto quella stuoia? Lui è quello più grosso, ha già preso a calci nel culo il piccoletto, e adesso si prostra per giorni ad aspettare che quello accetti le sue scuse?! Non ha nessun senso!”) Sono rimasto molto colpito dall’umanità e dalla bellezza di questo rituale, dalla forza che onore e famiglia riescono ad esercitare persino sul cattivone del villaggio, dall’ovvia sincerità che genera. Mi piacerebbe discuterne a lungo, ma non sono un sociologo e non è questa la sede. Lasciatemi solo dire che grazie a queste cose  tradurre quei sottotitoli è stata un’esperienza che mi ha arricchito molto dal punto di vista culturale.

Si è trattato, poi, con l’eccezione di una manciata di documenti legali, della mia prima ri-traduzione. Non stavo traducendo dal samoano – che suona dolce come il miele ma del quale, ahimè, non capisco una parola – ma, come ho detto, dalla traduzione di Philip dal samoano all’inglese. C’è tutta una questione di fiducia in ballo in un lavoro del genere. Mi fidavo di Philip, che ha un curriculum davvero notevole, e sapevo che la New Zealand Film Commission non avrebbe scelto un traduttore qualunque per un film che sarebbe poi diventato il rappresentante della Nuova Zelanda agli Oscar. Ciononostante, qui e là, quando il testo inglese era un po’ nebuloso, non potevo fare a meno di chiedermi se fosse a causa del gap culturale fra la mentalità occidentale e la tradizione samoana, o se ci fosse un errore di traduzione. Si trattava, puntualmente, del primo caso, ma  era comunque necessario stare particolarmente attenti ogni volta che qualcosa suonava strano, dato che non potevo consultare l’originale  e risolvere io stesso la questione.

Ci sono stati anche piccoli problemi squisitamente linguistici, come ad esempio l’uso della parola  ”banished  in inglese, che, per quanto ho capito, era una traduzione piuttosto diretta della parola samoana. In italiano, però, “banished” si traduce diversamente a seconda dei contesti: “esiliato” nel caso di “banished from a village” ma  ”ripudiato” se “banished by one’s family.” Chiaramente dovevo assicurarmi che la parola non avesse un grande peso simbolico, che sarebbe andato perduto “dividendo” il termine nelle due diverse traduzioni italiane.

Per quanto riguarda le parole samoane, ho dovuto soppesare attentamente le opzioni di traduzione di “lavalava” che indica in sostanza quel che gli europei chiamano  ”pareo,”  usando il termine tahitiano. L’ultima cosa che volevo fare era sminuire l’atmosfera distintamente samoana del film usando una parola presa in prestito da una cultura “abbastanza vicina.” Sembrava esattamente quel che avrebbero fatto – e facevano – quei cialtroni spacciatori dell’esotico che vendevano concetti semplicistici come “orientale,” “africano,” e “aborigeno” ai romantici borghesi occidentali come se fossero categorie monolitiche. Alla fine ho scelto “lavalava,” giacché quando un uomo dice “togliti il lavalava” ad un altro che indossa solo un pezzo di tessuto diventa abbastanza ovvio cosa sia un lavalava.

Insomma, tanta carne al fuoco, e come se non bastasse ci sono scappati anche due biglietti per la prima del film al Festival del Cinema di Venezia. In quel periodo mi trovavo in Italia, e mi sono detto, perché no? Devo ammettere che leggere i miei sottotitoli sul grande schermo è stata una bella gratificazione ma che me la stavo anche facendo un po’ sotto. Ho guardato tutto il film con implacabile attenzione e ho solo trovato cinque o sei cose che avrei cambiato, non molte per un traduttore puntiglioso. Quando il pubblico si è messo a ridere a battute che avevano attraversato mezzo mondo e due lingue, ho cominciato a rilassarmi.

Il film si è guadagnato una standing ovation e una menzione speciale, a Venezia, anche se non credo certo che sia per i miei sottotitoli – Tusi Tamasese è un narratore brillante e poetico, che è riuscito a far funzionare un film coraggioso che è al contempo drammatico, visivamente ricchissimo, eppure assai sobrio. è stato un privilegio ed un onore essere coinvolto, seppur marginalmente, nel suo successo, e spero che gli spettatori italiani possano goderselo, possibilmente senza storcere il naso davanti ai miei sottotitoli.


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