Regista: Duncan Jones
Attori: Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan, Vera Farmiga
Paese: USA
Per motivi assolutamente non validi sui quali non ci si soffermerà in questa sede, ancora non ho visto l'esordio apprezzato un po' ovunque di Duncan Jones, “Moon”. Ieri però ho visto la sua seconda prova dietro la macchina da presa. Con “Source Code” il regista sembra non abbandonare i lidi esplorati in precedenza e si serve nuovamente della fantascienza per mettere in scena un thriller che sembra non disdegnare affatto l'aspetto più umano del racconto. Cerca di penetrare in concomitanza con l'evolversi dell'intreccio la parte più intima dei protagonisti, nonostante il ritmo necessariamente serrato di una sceneggiatura la cui impostazione non concede pause di sorta.
8 minuti. Sono quelli concessi sistematicamente al protagonista, il capitano Colter Stevens (Jack Gyllenhaal), per salvare i passeggeri di un treno dall'esplosione di una bomba nascosta al suo interno. Sul treno, però, c'è anche lui. Non è un'esercitazione virtuale, è un trasferimento temporaneo di coscienza attraverso cui Stevens può rivivere gli ultimi 8 minuti di vita di uno dei passeggeri, avendo la possibilità di interagire con persone e ambiente come se tutto fosse reale. Ogni volta che muore in quegli 8 minuti torna alla realtà, per poi essere trasferito nuovamente sul treno.
Diviene chiaro, dopo aver letto il soggetto, perché si scriveva dell'assenza strutturale di pause. Assenza che Jones, almeno nelle battute iniziali, sembra rimarcare ulteriormente al punto di rendere ancor più incalzante la narrazione. A tale scopo blocca lo spettatore nella stessa identica situazione in cui è bloccato il protagonista, cercando con forza di far arrivare dall'altra parte quella sensazione di claustrofobia e fisica e mentale in cui si ritrova Stevens. In tutta probabilità, però, è proprio una simile impostazione che non permette al regista americano di approfondire con risultati più efficaci l'aspetto empatico del racconto. Se durante le primissime battute infatti, impegnati a cercare di capire cosa si nasconda dietro quanto accade, si è interessati per forza di cose al susseguirsi adrenalinico degli eventi, dopo una parentesi neanche troppo ampia la visione della pellicola comincia inesorabilmente a farsi ripetitiva e meno scorrevole. Il meccanismo comincia a stancare e il coinvolgimento (quello più emotivo, non quello iniziale dettato più che altro dalla curiosità) continua a non rispondere all'appello.
Di ragioni obiettive, di limiti evidenti o di debolezze palesi nella sceneggiatura qui, tuttavia, non ce ne sono. Assume quanto mai come in questo caso importanza la dimensione soggettiva, il gusto personale, perché pur volendo trovare come al solito quegli aspetti meno riusciti – seppur in parte filtrati comunque da una certa soggettività - che giustifichino il non aver apprezzato la pellicola, in "Source Code" non si riesce ad individuarne alcuno. Lo script è solido, i dialoghi assai funzionali per il contesto filmico ricreato (non così accattivanti, ma neanche avrebbero dovuto esserlo, in questo caso. Le battute evitabili sono al termine due di numero), il ritmo resta elevato per l'intera durata e le interpretazioni sono sufficientemente convincenti (ottima quella della Farmiga). Più in generale la gestione tecnica da parte di Duncan Jones appare ineccepibile. Come un classico esercizio di stile privo di pathos, potrebbe dire qualcuno, ma non sarebbe in realtà intellettualmente onesto, perché il regista, come si scriveva in precedenza, cerca più volte di trasformare in empatia alcuni dei tasselli principali della sceneggiatura di Ripley.
L'unico dubbio che si ha durante la visione, l'unico che mette in discussione la solidità dell'intreccio, con conseguente freno emotivo, è l'eccessiva capacità di interagire con le persone, con gli ambienti e addirittura con quanto si trova all'esterno del treno. Sarebbe impossibile una cosa simile sulla base delle premesse iniziali che spiegano il Source Code. Ma neanche questo elemento si risolverà in una debolezza individuabile alla quale imputare la poca forza della pellicola, grazie ad una soluzione, quella finale, che rimette tutto in riga. Una trovata al tempo stesso evitabile, perché inutilmente buonista, banale e particolarmente indicata per l'esaustiva espressione “che palle”, e fondamentale, perché altrimenti l'intera pellicola sarebbe stata un enorme buco di sceneggiatura.
Personalmente non consiglierei a nessuno il secondo lungometraggio del regista di “Moon”, ma l'unica motivazione che potrei addurre questa volta sarebbe un semplicissimo “perché a me non è piaciuto”.