
Una strada polverosa che si consuma in una fetta di terra arida e rossa, un germogliare letale di paesini e situazioni che lambiscono i gironi infernali e marciscono in atmosfere surreali da incubo, cinque storie che iniziano l’una dove finisce l’altra per generare un malessere continuo, fatto di weird, black comedy, splatter, e ancora culti ossianici, mostrologia assortita e vendette ultraterrene per novanta minuti di pura concezione horror.Non è un classico disclaimer modello “no vampiri no zombie” per sottolineare un’indagine argomentativa che vada al di là degli archetipi più conosciuti, Southbound ha l’apertura e la freschezza, con i dovuti paragoni, di un’antologia di un King degli anni d’oro o, forse meglio, di un Libro di sangueper la varietà dei contesti, la fragranza del dolore, la simpatia luciferina e l’abbondanza visiva quando l’aspetto più horror viene scatenato.
Cinque storie, quindi (e non è un caso il pentacolo stampato nella locandina), presentate da un Larry Fessenden in veste di Crypt Keeper radiofonico, solita garanzia indie che allo stesso tempo sostiene, nutre e spinge una buona percentuale della scena: Un inseguimento senza fine, dove creature alate e con fauci enormi definiscono i confini di una strada sempre più stretta e incomprensibile. Partenza in media res, un continuo mostrato che annienta qualsiasi tipo di spiegone, le domande rimangono più in vista delle risposte ma c’è una grande costruzione sulfurea, sporca e con una propria mitologia che viene sfiorata quanto basta per saziare la curiosità anche se tutto rimane sospeso. Dirige il collettivo Radio Silence, l’unico valido perché al primo V/H/SUna setta cannibal-culinaria con una bella sfilata di weirdo, è l’episodio meno valido da un punto di vista creativo, motivazioni e snodi centrali sono forse fiacchini ma il sovrastrato di caratteri, facce, pasti e contesti è da urlo, tanto che la storia stessa passa in secondo piano rispetto al gusto di stili e contrapposizioni creati. Una lotta tra demoni in un bar oltre le dimensioni che ricorda molto la violenza grezza e fantasiosa di Garth Ennis, il discorso qui è lo stesso del precedente, si comincia in quarta e prima di avere qualche risposta c’è tutto un circo demoniaco da sfoggiare in una pioggia di unghioni, tatuaggi e spruzzate di sangue.Un home invasion con risvolto e ritorsione soprannaturale dove i rapitori finiscono braccati da un orrore terremotante, una catena d’acciaio a inchiodarlo al primo segmento, si parte piano ma si finisce con terremoti e boati da armageddon, anche qui i punti di domanda si sprecano ma la potenza orrorifica è così brutale da annientare tutto il resto. E l’episodio migliore e più schietto, un automobilista che, dopo aver investito una ragazza, cerca di salvarla in un ospedale dunwichiano sotto le direttive di una voce misteriosa: una botta di adrenalina, un ritmo che non conosce sosta, una notevole fisicità rosso sangue per una serie di immagini per stomaci forti ricche, brillanti e originali.

Violenza sostenuta e abbondante, gore fisico e viscerale (quellagamba staccata è un nuovo punto fisso dopo le gambe spezzate di Frozen), assenza di ragazzini foruncolosi e insipidi per una buona rosa di caratteri diversi e interessanti, tensione ben dispensata e twist assestati con una certa intelligenza, ma soprattutto vivacità e spontaneità di intenzioni con idee magari non sempre centrate e a tratti canalizzate in una strada chiusa ma nella media potenti, genuine, legate a una concezione horror dove l’horror stesso è screening di spunti e visioni. No fantasmi, no slasher, no serial killer, no assedi, no commedia, soprattutto no cliché rivisitati o invertiti: in Southboundsi respira quell’aria buona di chi ha voglia di creare. Alleluia.Certo, non è una bomba, un film di possibile culto, una tappa importante nella marcia odierna, non è titolo per chi ama il cinema perché usa certe limitazioni del genere per proteggersi da ingenuità, sbrigatività narrative e varie concessioni comode, ma è un bella fontana dove molti horror fan dovrebbero sostare per rifocillarsi.