Non bastava il taglio delle “A” all’Italia, all’Austria e alla Francia, ora l’agenzia di rating più rockefelleriana del mondo ha deciso di intervenire anche sul Fondo Salva Stati del Vecchio Continente. In un colpo solo Standard&Poor’s ha tagliato una parte di credibilità (e di capacità finanziaria) all’Esfs (European System of Financial Supervisors), come di solito fanno la Guida Michelin con le stelle e quella dell’Espresso con i cappelli, dei ristoranti che non tengono alti i livelli di qualità. Il fatto è che l’Efsf non è “L’Osteria Francescana” e di solito non serve bollito impreziosito dal tartufo bianco ma eroga prestiti a tassi sostenibili agli stati europei in difficoltà. A questo punto, a meno che la Germania non intervenga pesantemente, la crisi dell’eurozona assume quei contorni nefasti che Trichet definì “sistemici”. Il fatto è che, da un po’ di tempo, è in atto una vera e propria guerra fra il dollaro e l’euro, con gli americani che aspirano a modificarne il valore sul mercato fino a raggiungere la parità di valuta 1 dollaro = 1 euro. L’euro forte diventa moneta di scambio appetibile, soprattutto da quando è stato accettato (e gradito) come moneta ufficiale (alla pari del dollaro), ad esempio nella compravendita di petrolio e di materie prime. Qualcuno pensava che gli americani prima o poi non si sarebbero incazzati? Per capirlo sarebbe bastato ricordare come si sono messi in mezzo quando l’eurozona è nata e, per capire il perché, sempre per esempio, l’Inghilterra non c’è mai entrata pur continuando a dire la sua nella politica europea. Gli Usa hanno fatto la loro parte ma c’è da dire che anche gli europei hanno fatto la loro in questo disastro annunciato che Mario Draghi, usando un eufemismo molto british, ha definito “situazione gravissima”. La soluzione, a questo punto, è che gli stati ancora in possesso del gradimento “A” di Standard&Poor’s versino di più al Fondo Salva-stati, con la Germania destinata a fare la parte della recalcitrante protagonista assoluta, quasi che le luci del palcoscenico la infastidissero. Quello che maggiormente ci irrita è che l’Italia aveva tutte le caratteristiche per non essere trattata peggio del Burundi e non ha fatto nulla per evitarlo. Onestamente ci siamo fracassati i cabasisi di ripetere sempre lo stesso ritornello totocutugnesco, quello composto dalle solite frasi che reiterano all’infinito ciò che non si è fatto. E ci sembra inutile piangere ripensando ai venti anni persi con un personaggio come Silvio Berlusconi, perché altrimenti la voglia di prendere in mano una vanga e assaltare il Palazzo diventa irrefrenabile. Valga, per tutte, una considerazione: non si guida la politica economica di una nazione come un amministratore di condominio il cui unico interesse è quello del saldo in pareggio (meglio se positivo) a fine anno. Non si ragiona sulle entrate, le uscite e il saldo come fossimo un’associazione sportiva no profit né, tantomeno, ci si può permettere di non tenere in considerazione il debito pubblico perché “lo hanno fatto gli altri”. Stiamo pagando a caro prezzo l’evasione fiscale (circa 200 miliardi all’anno), il “nero” (circa 250 miliardi l’anno con imponibile variabile), gli sprechi del sistema (una cinquantina di miliardi), la corruzione (160 miliardi annui), le connivenze a tutti i livelli con la criminalità organizzata (cifra astronomica non quantificabile). Fatti due conti con una semplice addizione, che non è la teoria dei quanti, quello che lo stato non incassa e spreca annualmente è di molto superiore a circa 30 manovre economiche espresse in euro e non in fotoni, quindi, comprensibili ai più. E la fregatura è che continuando di questo passo, il famoso “risparmio italiano”, quello che ci ha permesso di acquistare 3 televisori a testa, due auto, una barca, cinque cellulari e di far prosperare tutte le griffe del mondo e qualcuna in più, è a rischio serissimo di assottigliamento. I mercati ci chiedono politiche di sviluppo e di ripresa occupazionale, ci chiedono di investire sul futuro e noi risolviamo il problema liberalizzando le licenze dei taxi e delle farmacie e tentando di abrogare gli ordini professionali, che saranno anche un retaggio fascista e strutture classiste, ma che almeno ai suoi iscritti hanno garantito quel minimo di tutela che uno stato distratto ha riservato sempre di più alle caste politiche, economiche e affaristiche che non ai cittadini, specie quelli in difficoltà. Siamo tornati all’Italia dei dazi e dei balzelli, quella che se vuoi entrare in città devi prima passare alla dogana e se acquisti un sacco di grano sai che ne devi una parte al signore. Si continuano a tassare i cittadini come se avessero il portafoglio a fisarmonica, quello che basta aprirlo per farne uscir fuori euro come fossero note musicali, mentre si dimenticano quelli che si trovano sulla soglia di povertà e anche coloro che quella soglia l’hanno attraversata da un pezzo. L’Italia non è il paese delle opportunità, forse non lo è mai stato se non per i soliti noti. È il paese della più grande risorsa culturale, artistica e architettonica del mondo. Quando qualcuno se ne accorgerà sarà irrimediabilmente tardi. Dai Fori Imperiali e dalla Valle dei Templi di Agrigento non viene fuori il petrolio ma la civiltà. Sarebbe ora di darle un prezzo e senza costruirci appartamenti intorno.
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S&P taglia il Fondo salva-stati. L’eurozona è a rischio default e l’Italia sta messa anche peggio.
Creato il 17 gennaio 2012 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Non bastava il taglio delle “A” all’Italia, all’Austria e alla Francia, ora l’agenzia di rating più rockefelleriana del mondo ha deciso di intervenire anche sul Fondo Salva Stati del Vecchio Continente. In un colpo solo Standard&Poor’s ha tagliato una parte di credibilità (e di capacità finanziaria) all’Esfs (European System of Financial Supervisors), come di solito fanno la Guida Michelin con le stelle e quella dell’Espresso con i cappelli, dei ristoranti che non tengono alti i livelli di qualità. Il fatto è che l’Efsf non è “L’Osteria Francescana” e di solito non serve bollito impreziosito dal tartufo bianco ma eroga prestiti a tassi sostenibili agli stati europei in difficoltà. A questo punto, a meno che la Germania non intervenga pesantemente, la crisi dell’eurozona assume quei contorni nefasti che Trichet definì “sistemici”. Il fatto è che, da un po’ di tempo, è in atto una vera e propria guerra fra il dollaro e l’euro, con gli americani che aspirano a modificarne il valore sul mercato fino a raggiungere la parità di valuta 1 dollaro = 1 euro. L’euro forte diventa moneta di scambio appetibile, soprattutto da quando è stato accettato (e gradito) come moneta ufficiale (alla pari del dollaro), ad esempio nella compravendita di petrolio e di materie prime. Qualcuno pensava che gli americani prima o poi non si sarebbero incazzati? Per capirlo sarebbe bastato ricordare come si sono messi in mezzo quando l’eurozona è nata e, per capire il perché, sempre per esempio, l’Inghilterra non c’è mai entrata pur continuando a dire la sua nella politica europea. Gli Usa hanno fatto la loro parte ma c’è da dire che anche gli europei hanno fatto la loro in questo disastro annunciato che Mario Draghi, usando un eufemismo molto british, ha definito “situazione gravissima”. La soluzione, a questo punto, è che gli stati ancora in possesso del gradimento “A” di Standard&Poor’s versino di più al Fondo Salva-stati, con la Germania destinata a fare la parte della recalcitrante protagonista assoluta, quasi che le luci del palcoscenico la infastidissero. Quello che maggiormente ci irrita è che l’Italia aveva tutte le caratteristiche per non essere trattata peggio del Burundi e non ha fatto nulla per evitarlo. Onestamente ci siamo fracassati i cabasisi di ripetere sempre lo stesso ritornello totocutugnesco, quello composto dalle solite frasi che reiterano all’infinito ciò che non si è fatto. E ci sembra inutile piangere ripensando ai venti anni persi con un personaggio come Silvio Berlusconi, perché altrimenti la voglia di prendere in mano una vanga e assaltare il Palazzo diventa irrefrenabile. Valga, per tutte, una considerazione: non si guida la politica economica di una nazione come un amministratore di condominio il cui unico interesse è quello del saldo in pareggio (meglio se positivo) a fine anno. Non si ragiona sulle entrate, le uscite e il saldo come fossimo un’associazione sportiva no profit né, tantomeno, ci si può permettere di non tenere in considerazione il debito pubblico perché “lo hanno fatto gli altri”. Stiamo pagando a caro prezzo l’evasione fiscale (circa 200 miliardi all’anno), il “nero” (circa 250 miliardi l’anno con imponibile variabile), gli sprechi del sistema (una cinquantina di miliardi), la corruzione (160 miliardi annui), le connivenze a tutti i livelli con la criminalità organizzata (cifra astronomica non quantificabile). Fatti due conti con una semplice addizione, che non è la teoria dei quanti, quello che lo stato non incassa e spreca annualmente è di molto superiore a circa 30 manovre economiche espresse in euro e non in fotoni, quindi, comprensibili ai più. E la fregatura è che continuando di questo passo, il famoso “risparmio italiano”, quello che ci ha permesso di acquistare 3 televisori a testa, due auto, una barca, cinque cellulari e di far prosperare tutte le griffe del mondo e qualcuna in più, è a rischio serissimo di assottigliamento. I mercati ci chiedono politiche di sviluppo e di ripresa occupazionale, ci chiedono di investire sul futuro e noi risolviamo il problema liberalizzando le licenze dei taxi e delle farmacie e tentando di abrogare gli ordini professionali, che saranno anche un retaggio fascista e strutture classiste, ma che almeno ai suoi iscritti hanno garantito quel minimo di tutela che uno stato distratto ha riservato sempre di più alle caste politiche, economiche e affaristiche che non ai cittadini, specie quelli in difficoltà. Siamo tornati all’Italia dei dazi e dei balzelli, quella che se vuoi entrare in città devi prima passare alla dogana e se acquisti un sacco di grano sai che ne devi una parte al signore. Si continuano a tassare i cittadini come se avessero il portafoglio a fisarmonica, quello che basta aprirlo per farne uscir fuori euro come fossero note musicali, mentre si dimenticano quelli che si trovano sulla soglia di povertà e anche coloro che quella soglia l’hanno attraversata da un pezzo. L’Italia non è il paese delle opportunità, forse non lo è mai stato se non per i soliti noti. È il paese della più grande risorsa culturale, artistica e architettonica del mondo. Quando qualcuno se ne accorgerà sarà irrimediabilmente tardi. Dai Fori Imperiali e dalla Valle dei Templi di Agrigento non viene fuori il petrolio ma la civiltà. Sarebbe ora di darle un prezzo e senza costruirci appartamenti intorno.
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