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“SPARARE” INFINE AL CENTRO, di GLG, 16 giugno ‘13

Creato il 18 giugno 2013 da Conflittiestrategie

 

1. Da qualche anno anche coloro che hanno manifestato vivaci critiche al modo di governare l’Italia si sono limitati a “sparare” ai bordi della politica seguita da chi gestiva il potere (non solo nel governo, anzi soprattutto in altre istituzioni, per di più strettamente dipendenti dall’estero: dalla UE e, al di sopra di tutti, dagli Stati Uniti). In particolare, si è fatto sfoggio dell’usuale ossessione economicista di estrema rozzezza. Cerchiamo di indicare, per sommi capi, alcune questioni cruciali degli ultimi anni, su cui si è creata la massima confusione.

Intanto, il governo Monti. Questo è stato messo in piedi dal presdelarep con la sostanziale connivenza di colui che protesta sempre per essere fatto oggetto di discriminazione. Quest’ultima, in effetti, esiste da vent’anni. Tuttavia, nel mentre la si è attuata da parte della “sinistra”, che non riesce ad impadronirsi dell’intero potere spettante ai servi degli Usa, questi ultimi (diciamo gli ambienti attualmente al comando) hanno nella sostanza “persuaso” il Berlusconi ad allinearsi con ben scarso bofonchiare (malgrado certi ultimi eventi, che andranno decifrati). Il premierato a Monti è stato concordato con buon anticipo (almeno un anno) ed è stato infine realizzato per attuare una politica dissennata che spaventasse gli italiani, li riducesse al massimo sconforto in modo da fare loro accettare la piena predominanza semicoloniale della potenza d’oltreatlantico attuante una nuova strategia politica internazionale (che sembra in qualche difficoltà). Oggi, con un nuovo governo – nominato soltanto dopo la recita di una scadente commedia allo scopo di rieleggere presidente il garante dell’operazione, che ha qualche tempo fa rivelato la transitorietà dello stesso (si rilegga il mio “A botta calda”, le cui ipotesi risultano a questo punto confermate per l’essenziale) – si vuol ottenere dalla nostra popolazione un bel sospiro di sollievo per i pericoli peggiori scampati, accompagnato dalla disponibilità (per la verità pure inconsapevole) ad accettare la semicolonizzazione.

Va comunque detto con chiarezza che la popolazione non ha capito il senso dell’operazione truffaldina, per cui è molto facile che alla fine cada nel tranello. Vi è solo la “crisi” che è dura a morire, ma è destinata a trascinarsi per le lunghe, tramite notevoli sofferenze e difficoltà di “far quadrare i bilanci” (mi riferisco a quelli delle “famiglie”), senza tracolli gravi e disperanti. In ogni caso, il prossimo anno – più ancora dei 18 mesi indicati da Napolitano – saranno abbastanza decisivi per questo governo e per la politica italiana in genere. E’ necessario trovare “la quadra” per far tirare al popolo il suddetto sospiro di sollievo, pur nella diminuzione del suo tenore di vita medio. La prima mossa utile all’uopo mi sembra essere stata proprio il can can dell’antipolitica (mentre vi è invece bisogno di una politica) promosso da Grillo. Non mi interessa sapere se egli ha o meno parlato con agenti americani; oggettivamente ha agito al fine di dirottare il malumore e il disgusto della “ggente” verso l’obiettivo sbagliato, quello che non poteva che creare delusione e sconforto in quest’ultima.

 

2. Le pedine dei prossimi movimenti sembrano per l’essenziale essere state disposte; tuttavia, non è facile comprendere quali saranno effettivamente. Né sarei proprio sicuro che le mosse da compiere siano state già decise con precisione. Non escluderei che chi le deve effettuare abbia predisposto alcuni sentieri alternativi da percorrere a seconda delle contingenze. Inoltre, i giocatori sono ben più d’uno; può essere che uno abbia forza prevalente e imponga date scelte, ma non penso proprio che il tutto avvenga secondo modalità predeterminate fin d’ora. Molte decisioni sono assai probabilmente ancora sub iudice o addirittura lasciate al concreto evolversi degli eventi, in buona parte ancora incerto.

C’è un punto su cui bisogna soprattutto essere chiari. L’Italia è sempre più dipendente da influssi esteri; i quali si dipartono dagli Usa (quanto meno dagli ambienti della neostrategia, che sembrano andare incontro a qualche opposizione, al momento sorda e non chiara ) e poi, magari tramite alcune diramazioni, arrivano a determinare per l’essenziale quanto accade qui da noi. Di conseguenza, per analizzare e seguire il suddetto futuro evolversi degli eventi, sarebbe necessaria una preliminare buona conoscenza dei movimenti strategici statunitensi nel mondo e le specifiche loro intenzioni in Europa. Noi serviamo agli ambienti appena sopra citati in quanto mera pedina per la politica da essi svolta nella nostra (soggiogata) area; da qui deriva quell’aura di semicolonizzazione (o di Protettorato) aleggiante, e stazionante con il suo influsso mefitico, sulla nostra terra.

Dopo aver spaventato la popolazione italiana, molte sono le correzioni di cui si parla, anche se la loro attuazione (tipo la sospensione dell’IMU e dell’aumento dell’IVA al 22%) è oggetto di (non) decisioni confuse e, di fatto, appare soltanto rinviata. E non si capisce se il rinvio serve a prendere tempo, sperando che si ammosci la disaffezione del popolo verso la politica e la sedicente Casta; oppure se si cerca di studiare delle modifiche, che nemmeno si sa se non porteranno a peggioramenti del sospeso; o se si è intenzionati a tenere ancora sotto paura la (facendo balenare qualche speranza nella) popolazione; o cos’altro ancora. L’importante è capire l’essenziale: il problema di fondo non è l’“educazione” degli italiani (troppo “gaudenti e consumisti” secondo i cialtroni dell’establishment) ad un maggiore rigore e senso della responsabilità nei duri momenti che stiamo attraversando. Molto più assillante per i nostri subdominanti (colonizzati) è renderci docili alle manovre poste in atto dagli Usa (anche usando sicari) di fronte alle difficoltà e forse qualche insuccesso cui sta andando incontro la loro neostrategia nell’area mediterranea e viciniore.

Mi interessano qui, per il momento, alcune critiche che si sono mosse e si continuano a muovere alla politica di austerità seguita da Monti. C’è ancora, va detto, qualche puntata della vecchia impostazione “de paura”: il debito pubblico in crescita, il rapporto deficit/Pil che non è sotto controllo malgrado gli strombazzati miglioramenti; perfino lo spread, pur essendo attualmente basso, ha tendenze a rialzare la cresta o potrebbe farlo se si attenuasse il controllo e il “rigore”. Tuttavia, al momento prevalgono le critiche all’eccesso di austerità. Gli stessi che la predicavano adesso ne mettono in luce la negatività, senza minimamente spiegare il loro cambiamento di idee. Il vero fatto è che siamo in una transizione; ottenuta, come detto altrove, con la commedia che ha portato alla rielezione del quasi nonagenario presdelarep e, dopo (solo dopo), ad un governo di “larghe intese”, che deve logorare definitivamente sia Pdl che Pd (con modalità differenti, ma entrambi sono in ribaltamento e modificazione interna) e cercare di neutralizzare la spinta disaffezione di ormai circa la metà della popolazione per questo immondo affastellamento di inetti e corrotti che passano per politici.

Di fronte all’indignazione che sollevano simili saltimbanchi, appaiono certo come quasi accettabili le critiche più “radicali” (cioè pensate tali da chi le muove) che vengono loro rivolte; e probabilmente spesso in buona fede. Ormai abbiamo fatto indigestione di “lodevoli” attacchi alla cattiva finanza, alle banche imbroglione, alla depredazione rappresentata dal signoraggio. Vi è poi chi è per il deciso rifiuto dell’euro. Sia chiaro: l’adozione di tale moneta ha rappresentato nel momento della sua entrata in vigore – grazie al cambio folle tra euro e lira – una decurtazione netta (non meno di un terzo) del potere d’acquisto dei redditi “fissi” (salari, pensioni, ecc.) e dei risparmi accumulati. Tornare indietro mi sembra però francamente assai problematico e non credo risanerebbe la situazione; nemmeno, immagino, la farebbe ripartire “da zero”. Vi sono poi le “scomuniche” della politica seguita dalla BCE e di quella che magari vorrebbe la Bundesbank e la “malintenzionata” Germania, che si sarebbe avvantaggiata di tutta l’operazione relativa alla moneta unica europea.

Non sono un esperto di questioni monetarie e finanziarie, che anzi generalmente mi annoiano e scivolano sulla mia corteccia cerebrale senza mettere in vibrazione i neuroni. Francamente non mi sembra di vedere l’Inghilterra – fuori della zona euro – in condizioni particolarmente floride e “felici”. Ho la netta sensazione che le critiche in questione restino molto al di qua della crisi reale, quella produttiva, che batterà ancora a lungo; e che è la meno manovrabile con marchingegni scovati dai sedicenti tecnici (“capaci”; ma non so in che cosa). Si fa un gran battage sugli Usa e, più di recente e soprattutto, sul Giappone, che hanno inondato il “mercato” di liquidità, senza badare a deficit di bilancio, ecc. E’ veramente ripartita la loro economia? Ci sono necessari ritardi sol perché simili operazioni non hanno effetti eclatanti da un giorno all’altro? Bene, aspettiamo allora di vederne i risultati fra qualche tempo. Ho sostenuto più volte che questa crisi non sembra destinata a sprofondamenti gravi, ma al galleggiamento; e con forme e intensità diverse tra certi paesi e altri, in particolare tra quelli molto sviluppati e altri che sono in via di forte crescita, tuttavia già un po’ scricchiolante e in rallentamento.

Si è parlato altre volte in passato di “droga” fornita all’economia attraverso la liquidità. Non sempre la droga è servita; e, quando è stata utile, quanto è durato il suo effetto? In genere, si dovrebbe avere una certa spinta inflattiva, moderata poi tuttavia dalla reale crescita produttiva. Aspettiamo di vedere i “segnali”. Ma saremo in grado di accertarli realmente con questi istituti statistici spesso asserviti a chi vuol farci prendere lucciole per lanterne? Francamente, mi sembra che ci troviamo in un vero cul de sac; si crea però un mondo “virtuale” di sogno in cui la gente “vede” (cioè gliela si fa vedere nel dormiveglia) la via di uscita. In tutta franchezza: se si resta sempre a ricette puramente monetarie, ho la sensazione che i risvegli arriveranno presto e saranno poco piacevoli.

La critica più seria, che investe di fatto la crisi nei suoi termini reali, fa riferimento alla pressione fiscale assai elevata, a tutta una serie di misure – solo ossessionate dal debito pubblico, dal deficit di bilancio, ecc. – che riducono il potere d’acquisto della “gente”. Si fa riferimento ai consumi in senso stretto, ma ovviamente ne vengono colpiti anche quelli produttivi (cioè gli investimenti, che sono domanda di mezzi di produzione); sia direttamente per diminuzione dei profitti da reinvestire, sia per il calo delle vendite che riduce i ricavi mentre restano più rigidi gli ammortamenti e le spese generali, per cui resta meno da investire e nemmeno conviene investire.

Vi è però allora la proposta di ridurre le spese dette improduttive, le spese soprattutto per un apparato pubblico dov’è eccessiva la spesa corrente (in particolare per il soprannumero di impiegati a bassissima produttività) e tutta un’altra serie di spese per consulenze esterne (concesse molto amicalmente), per appalti (concessi pur sempre ad “amici” e a costi nettamente superiori a quelli reali), per finanziamenti (idem come sopra), ecc. Critica in parte realistica, ma che sconta una serie di contraddizioni. Intanto, molto spesso la riduzione di spesa incide invece su servizi utili o comporta un vero abbassamento delle prestazioni dello Stato detto sociale (basti pensare alle misure di riduzione della spesa sanitaria, che ormai stanno rendendo quasi convenienti, comunque concorrenziali, i centri medici privati che in genere hanno alcuni grossi punti di vantaggio in termini di servizio: comodità e celerità, non sovraffollamento, ecc.).

L’effettuazione di tagli alla spesa pubblica, inoltre, ridurrebbe la domanda da parte di questi settori di attività. Si chiede la riduzione del carico fiscale per eventuali effetti benefici sulla domanda privata e poi si chiede la riduzione di quella pubblica, con effetto complessivo di difficile valutazione. Oltre al fatto che la riduzione di personale – pur lasciando perdere la difficoltà del calcolo della produttività del lavoro in tali settori, subordinato spesso a preferenze politico-ideologiche – farebbe cadere la massa salariale e perciò anche la domanda privata. Non metto in dubbio l’inefficienza nell’erogazione di certi servizi pubblici e il senso di eccesso nell’impiego del personale per gestirli – si sa bene che certe assunzioni rispondono (soprattutto rispondevano in anni passati) a criteri di “questione sociale” e di clientele elettorali, e non di effettiva utilità – ma bisogna quanto meno seguire criteri di coerenza nel chiedere misure, sovente del tutto contraddittorie nei loro effetti.

Infine, ci sono quelli che insistono nel voler liquidare le proprietà pubbliche per realizzare quanto necessario a risanare i conti, alleviare debito, deficit, ecc. (sempre dello Stato, la “bestia nera” di questi irresponsabili). Chi legge anche solo l’appendice (“Pubblico o privato per me pari sono”) del mio volume L’altra strada (Mimesis 2012), capirà che non penso il primo come dedito all’interesse generale della collettività; non sono mai stato di quelli che confondevano il socialismo, quale prima fase del comunismo nelle previsioni di Marx, con quello puramente statale del tipo Urss e degli altri paese del “socialismo reale”. Tutto dipende dalla storia di un paese e da come si è andata configurando la sua struttura produttiva.

In Italia – a causa della crisi del ’29, del salvataggio fascista di dati settori con creazione dell’IRI, della necessità Dc nel dopoguerra di mantenerlo ed anzi ampliarlo con Finmeccanica (1948), Eni (1953) ed Enel (1962) per resistere alla pressione di un capitale “privato” particolarmente arretrato e reazionario in specie dal punto di vista della dinamica sociale (in presenza, fra l’altro, del “campo socialista”) – liquidare adesso il patrimonio immobiliare pubblico può significare l’indebolimento della prospettiva (certo ormai problematica) che sorga qualche forza in grado di affibbiare una salutare lezione ai “cotonieri”, del tutto passivamente subordinati agli Usa. Per di più, si parte dagli immobili, poi si passa (vedi la campagna della “destra” e perfino di alcuni settori della “sinistra” un tempo piattamente statalista) alla Rai e infine alle imprese dei settori veramente strategici dell’energia e della “terza rivoluzione” industriale. Non si deve cedere a simili guastatori; le loro idee in fatto di sistema economico sono forse le più pericolose per il futuro di un paese come il nostro, che non è certamente in condizioni di sottosviluppo e arretratezza; è semplicemente vessato da una classe dirigente antinazionale e che trova il suo interesse soltanto nella piena subordinazione agli Stati Uniti, nel mentre urla contro la Germania per nascondere il vero obiettivo del suo bieco servilismo.

 

3. Il problema centrale non è però ancora tra quelli appena sopra esposti pur per cenni. E’ indubbio che in molti, troppi, si sono scordati la lezione del ’29 e la successiva teorizzazione keynesiana. Nel breve periodo, in presenza di capacità produttiva resa sterile per carenza di domanda – e, se si fa un can can sulle migliaia di iniziative imprenditoriali che chiudono per mancanza di sbocchi, questo dovrebbe essere il perno attorno a cui far ruotare le decisioni dei “tecnici” – diventa inconsistente ogni preoccupazione circa il deficit, il debito, ecc. Il compito da affrontare, pur nella superficialità economicistica cui soggiacciono governanti del tutto inetti, è come risollevare la domanda, quella complessiva composta da consumi e investimenti: tuttavia, se esiste tale capacità produttiva inutilizzata, la priorità logica (e non solo logica, sempre in termini di mero economicismo) mi sembra chiaramente spettare ai consumi. Ed è ipocrita alzare alti lai sulla disoccupazione, sulla precarizzazione del lavoro esistente, ecc. e poi impedire qualsiasi rimessa in funzione, tramite aumento della domanda, della suddetta capacità produttiva, cioè di migliaia di possibili iniziative che creano lavoro, sia “autonomo” sia “dipendente”.

La crisi del ’29 divenne particolarmente pesante nei suoi aspetti reali – e sociali con punta massima della disoccupazione negli Stati Uniti – nel ’32-‘33. E dette l’abbrivo a quel complesso di decisioni detto New Deal, subito dopo la prima elezione di Franklin Delano Roosvelt (detto per inciso, il presidente “buono”, in realtà tanto capace politicamente da accollarsi il sacrificio di oltre tremila soldati americani a Pearl Harbor per vincere le resistenze del Congresso all’entrata in guerra, che non poteva aspettare oltre). Il New Deal fu un complesso di misure che comportarono un notevole aumento di domanda pubblica con rimessa in attività dell’economia. Vi furono anche misure infrastrutturali rilevanti (ad es. sistemazione idraulica, opere di irrigazione, ecc.). A volte si presero decisioni contraddittorie come gli incentivi dati ad agricoltori per distruggere parte della produzione e limitare le semine onde sostenere i prezzi, pena la rovina di molti di loro; il che, comunque, non favoriva certo la ripresa della domanda.

Di questi problemi, tuttavia, ho parlato più lungamente nelle mio scritto “Riflessioni sulla crisi” (riportato nel sito di C&S). Qui m’interessa ricordare che il successo del New Deal – in ogni caso, non vi è dubbio che la situazione divenne economicamente e socialmente meno pesante – fu appunto dovuto all’intervento pubblico (soprattutto di spesa, cioè di domanda), non lasciando invece l’iniziativa al solo “virtuoso libero mercato” degli incalliti e sclerotici liberisti (che sono tornati di nuovo in auge per provocare danni incalcolabili). L’effetto principale e più vigoroso durò però due-tre anni. Di sicuro nel ’37 (forse persino prima) si avvertirono nuovi aperti sintomi di stanchezza economica – relativa in ogni caso alla sola crescita, riguardante il volume del Pil, questione assai diversa dallo sviluppo implicante mutamenti innovativi nella struttura del sistema economico, nel suo assetto intersettoriale – che perdurarono fino alla seconda guerra mondiale. Alcuni – keynesian-marxisti o keynesiani “radicali” – hanno voluto porre in luce la rilevanza della guerra nei termini della forte spesa militare, che alimenta redditi (e occupazione) per produrre beni da utilizzare e distruggere nelle operazioni belliche, con aumento quindi della domanda non controbilanciata da eccesso di beni prodotti in afflusso nel mercato.

Nelle mie “Riflessioni”, ma io non sono affatto un caso isolato, ho posto invece in risalto che la guerra ha creato un mondo bipolare, con due campi in cui i vari paesi (e i settori produttivi nei paesi) erano in relativo coordinamento grazie al predominio di un centro regolatore. Con metodi diversi: in un campo prevalse infine la stagnazione e perfino il regresso produttivo (e non solo tale); in quello capitalistico “tradizionale” (in realtà, di matrice statunitense e assai diverso da quello borghese ormai tramontato o in ogni caso nettamente subordinato) il coordinamento fu comunque più dinamico e attraversato da crisi minori, le cosiddette recessioni. La vera turbolenza fu relegata nel “terzo mondo”, dove molte aree divennero terreno di scontro – politico sempre, e spesso bellico – tra i due campi. Il relativo coordinamento, in specie quello interno al campo capitalistico, è stato contrabbandato – consapevolmente o meno, poco importa – come fine delle crisi e trionfo della cooperazione tra paesi “eguali” (soprattutto nel “mondo libero”, basato sul “libero mercato”, perché anche i keynesiani raccontano questa favola).

Niente di tutto questo, come messo in luce nella parte terza del mio lavoro sulle crisi. Il relativo coordinamento era impresso dalla netta e inattaccabile predominanza statunitense, che del resto in gran parte del mondo “occidentale” perdura ancora, ma non può più ottenere gli effetti d’allora poiché, innanzitutto, manca il nemico pensato come possibile affossatore del capitalismo e quindi paventato dalle classi dominanti (pre e sub) di tale mondo. Inoltre, e soprattutto, si è parzialmente affievolita la netta prevalenza del centro coordinatore (Usa) costretto a strategie più complesse – che spesso accentuano il “normale” squilibrio caratterizzante una realtà dinamica – pur di difendere la sua posizione. Qui è il fulcro della questione; e proprio a questo punto, pur se sembra contraddittorio, dobbiamo mantenere un atteggiamento relativamente incerto circa il giudizio da dare dell’attuale situazione critica; una incertezza che significa cautela, prudenza nell’emettere sentenze definitive com’è invece nell’abitudine di chi ha la fregola di formulare giudizi immediatistici, validi l’espace d’un matin, mentre sono indispensabili valutazioni problematiche della fase storica in cui si è entrati.

L’economia è l’efflorescenza sgargiante e più visibile – anche per il lavoro plurisecolare svolto dall’ideologia dei dominanti – che presenta il sistema detto capitalistico. Si è in presenza di una formazione sociale che ha conosciuto mutamenti sostanziali; in particolare, come ho ricordato mille volte nei miei scritti di un ventennio circa, il passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale (intravisto e anticipato quasi solo dall’analisi di Burnham sulla “rivoluzione manageriale”, che non coincide però esattamente con la mia idea di transizione intercapitalistica). Le radici di qualsiasi formazione sociale non sono nell’economia – e nemmeno nei rapporti sociali tra i soggetti implicati nell’attività produttiva della società (come almeno aveva teorizzato Marx), mentre i gretti ideologi di buona parte delle classi dominanti (in specie di quelle sub) considerano soltanto le attività economiche tout court, per di più con quell’abominevole deviazione finanziaria dei nostri tempi – bensì nella politica che, come dovreste ormai sapere, è per me l’insieme delle strategie poste in opera nel conflitto tra determinati gruppi sociali (i decisori) ai fini della supremazia; la quale, in genere, spetta a gruppi di decisori diversi d’epoca in epoca.

La politica investe tutte le partizioni della formazione sociale: da quella degli apparati dello Stato e della sfera detta pubblica (quella appunto che gestisce la spesa omonima e che è tanto odiata dai liberisti) a quella economica (idolatrata invece da tali adoratori della “libera” iniziativa privata) a quella ideologica o, detto più in generale, culturale (una cultura che, comunque, è sempre pregna di una ideologia, di un punto di vista, di una concezione del mondo, affinata in secoli di storia, con periodici “bruschi passaggi” di fase). Chi dimentica la politica non giunge mai se non a minime analisi (“tecniche”) a spizzico, alle mezze verità con una piegatura tale che le rende facilmente, o comunque in un breve volgere di tempo, ingannevoli.

L’interpretazione di una fase, o addirittura di un’epoca, si rivolge a periodi di tempo abbastanza lunghi e deve dunque fondarsi sulla politica. E’ ovvio, quindi, che ogni interpretazione di questo tipo – a meno di non immaginarsi profeti – si serve di ipotesi, spesso intuitive, non corredate (paludate pomposamente) da dati su dati, da grafici e tabelle, da pure formule matematiche. Se non si cerca l’eternità delle proprie proposizioni, l’ipotesi fondata sull’analisi della politica è l’unica a consentire previsioni elastiche, sempre rivedibili, ma dotate di senso e che non conducono, in due balletti, alla più totale sconclusionatezza e incoerenza delle affermazioni che vediamo oggi nei giornali, nei libri dei maîtres à penser, nella sentenziosità banale di un ceto intellettuale arrogante quanto dannoso per il veleno che sparge, pagato da dominanti ormai privi di dignità, veri banditi matricolati, malfattori da gettare solo in galera o in luoghi ancora peggiori e più bui.

Alla politica dovremo quindi sempre rifarci se vogliamo parlare sensatamente di una crisi che ci accompagnerà a lungo; con alti e bassi e con un trend di bassa crescita e difficoltà economiche, differenziate però in vari paesi e in sottofasi diverse della più ampia fase di criticità endemica. Se si è afferrato che cos’è la politica, risulterà evidente che essa esiste perché non cessa il conflitto tra più gruppi sociali per la primazia in dati paesi o in più ampie aree mondiali. Un tempo, con il marxismo, sembrava di essere in possesso di una strumentazione atta a cogliere la struttura dei rapporti tra gruppi sociali nelle varie formazioni particolari (paesi, ecc.); e alcune previsioni così formulate (basti pensare a quella relativa all’impasse ormai definitiva dell’Urss e del “socialismo reale”) hanno funzionato abbastanza bene. Oggi tale strumentazione è logora; si è tentato di formulare varie ipotesi ad hoc – ad es. la sostituzione della lotta di classe tra capitale e lavoro con quella tra imperialismo e antimperialismo di molti paesi del terzo mondo – ma tale giochetto è ormai fallito da più di trent’anni. Dovremo ricominciare un lavoro di ripensamento teorico di fondo, non “sparare” le sciocchezze che si trovano nei “siti critici” di internet.

E termino qui poiché odio le improvvisazioni. Siamo indietro, terribilmente indietro; ma sono in troppi a non dolersi di tale arretratezza e a crogiolarsi nelle analisi a spizzico, che sono come le battute di spirito: sono brillanti e piacciono, ma si spengono presto come le faville di un falò. Bisogna farle, sia chiaro, il “senso dell’umorismo” è componente apprezzabile dell’intelligenza umana; ma poi si deve anche articolare un discorso serio e coinvolgente.


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