Spartaco sapeva aspettare. Nei mattini di sole capitava che con Gioele sostasse per ore in una conca prativa o sui declivi della montagna. Spartaco appunto aspettava che Gioele fischiasse l'ordine di raggruppare il bestiame, di condurlo al pascolo o alla stalla. Allora correva ai fianchi del gregge e perfino sui dorsi e in silenzio o gettando una voce alle pecore faceva in fretta ciò che gli era stato chiesto. Poi trotterellava al suo posto e si accovacciava nuovamente ai piedi di Gioele.
Rientravano a buio fatto. Nella stanza in cui consumavano la cena c'era il camino sul cui fuoco cuoceva il latte dei pecorini (maturavano su letti intrecciati di rami) e un giaciglio di paglia che veniva cambiato ogni giorno. Quel giaciglio era la cuccia di Spartaco.
Dopo aver mangiato Gioele riempiva una pentola sbeccata con quel che restava sulla tavola, a volte cereali, a volte zuppa o brodo oppure ossa, e la porgeva a Spartaco. Voleva dire, ora puoi mangiare e riposarti. Spartaco masticava in silenzio e poi si coricava ai piedi di Gioele se girava il latte nel pentolone o intagliava bastoni. Quando Gioele si ritirava anche Spartaco scavava una piccola fossa nel giaciglio di fieno e si addormentava.
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Andarono avanti molti anni. Accudivano il bestiame e la sera Gioele girava il latte sul fuoco per farne formaggio. Ma un giorno Gioele fermò lo stecco nel pentolone e si lamentò: vorrei una donna che girasse il latte e che mi desse figli affinché io un giorno possa riposarmi.
Allora Gioele raggiunse la città e si unì alla figlia di un macellaio. Bianca e rosa era la figlia e si chiamava Gisela.
Gisela imparò a girare il latte, Gioele spiegava come fare il formaggio: “Il latte in una pentola è una gora di schiuma e di grasso. È come la pecora che ha il vello ricciuto e il ventre pieno, come piena sei tu adesso che hai in ventre i miei figli per i quali lavoreremo e, un giorno, ci riposeremo. Ma se al latte aggiungi questa polvere di stomaco di agnello il latte e la polvere si riconoscono e ribollono, e nascono uova di siero e sostanza. Tu farai asciugare il siero sui letti intrecciati di rami e col pepe e le erbe maturerai la sostanza. E di sostanza e frumento ci nutriremo e staremo bene, insieme.
Così Gioele e Spartaco accudivano il bestiame. Rientravano a casa a buio fatto, Gisela girava il latte e intrecciava letti di rami. Un giorno disse a Gioele: “Il parto è vicino. Scenderai in paese e comprerai bende di lino e saponi, e recipienti per l'acqua. Li scambierai con un agnello nato da poco”. E quando Gioele ebbe sgozzato l'agnello, lavato le dita col primo sangue e se ne fu andato Gisela disse “Nessuno mi ama. Sono sola tutto il giorno a gonfiare il seme del mio uomo e girare latte e stomaci d'agnello”. E mentre parlava Gisela piangeva, e mentre Gisela piangeva Spartaco guaiva, e mentre Spartaco l'annusava Gisela si premeva la testa nera sul ventre e diceva come sono sola come sono sola e tu come sei buono quanto sei buono – e gemeva gemeva in una tempesta di vestiti e piedi nudi, tenendosi il grembo.
Partorì una femmina. La sera dopo aver mangiato Gioele riempiva una ciotola di avanzi, potevano essere rape bollite o cereali e la porgeva a Spartaco, che aspettava accovacciato fuori dalla porta. Le ossa e la carne avanzata servivano a Gisela per fare pasticci con cui ingrassava il suo latte. Al posto del giaciglio di paglia c'era la culla dove dormiva la figlia Claudine.
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Passarono così molti anni. Claudine, quasi una donna, girava il latte e Gisela, ancora piena, intrecciava rami sui quali maturavano uova di siero e sostanza. Un giorno Claudine fermò lo stecco nel pentolone e si lamentò. Mamma, disse, vorrei vedere la città. E Gisela rispose: il sole è sorto da poco e Gioele non rientrerà prima del tramonto. Vestiamoci e andiamo in città. Porteremo con noi ricotte e lana, e le scambieremo, se siamo fortunate, con zenzeri freschi e datteri d'Africa.
E la città era così grande. Sventagliavano i banchi degli speziali, gli agnelli freschi ancora gocciolanti ai ganci dei macellai, drappeggiavano le stoffe, dentro le botteghe buie croccavano le focacce e il pane, i sacchi di droghe e le farine, e agli angoli le fattucchiere e gli straccioni, piagati mostruosi, si offrivano di provocare un destino o di leggere il futuro in una manciata d'ossa o nella forma di uno sputo per terra, per un cucchiaio di ricotta di pecora. “Mamma – aveva mormorato Claudine davanti a un cartello di legno dipinto – vado a farmi dire il destino”.
C'era una tenda buia, un indovino vaticinava nella stanza e bruciava un impasto d'incenso. Poi tacque. Quando ebbe finito di parlare, Claudine ansava, e si sentì stringere la mano più forte.
Claudine credette di vedere le sue orbite azzurre anziché vuote, e il siriano che aveva parlato, che era giovane e cieco, l'afferrò nell'intervallo di silenzio di lei e le si strinse addosso, Claudine piangeva e il siriano l'annusava, Claudine si premeva la testa nera sul petto e diceva come sono sola come sono sola, il siriano si spingeva addosso a lei e Claudine tremava tremava, finché si calmò – gemeva piano, come una cavalla, in una tempesta di vestiti e piedi nudi quando Gisela si accostò alla tenda e fece cenno di entrare, contenta di aver scambiato una ricotta di pecora per una manciata di datteri d'Africa.
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Ora niente era al proprio posto. Le rocce erano farinose e gialle, gli alberi secchi, i frutti verminosi, i prati ispidi e spazzati di vento. Gisela portava l'erba alle pecore, Claudine rovesciava il luridume in secchi e i secchi nelle fosse. Mentre guardavano le pecore si montavano fra loro e lasciavano semi neri sui campi. Claudine disse: “Il siriano ha visto che vivremo in città, saremo ricche e staremo bene, insieme”; “ma come possiamo fare”, rispose Gisela, che portava sui fianchi un fascio di fieno.
“Venderemo le bestie”, disse Claudine.
“Venderemo le bestie, ma dovremo preparare un inganno”, rispose Gisela, e gettò l'erba alle pecore mute.
La notte galleggiava intorno a uno spicchio e una ridda di stelle, Gisela e Claudine percossero la porta e nella stalla fu come un bagno la luna sul fieno e la lana delle pecore addormentate. Gli agnelli più piccoli presero Gisela e Claudine, zittirono le madri e li soffocarono in una coperta e sui corpi sfregarono gli zenzeri, sulle groppe e sulle cosce li sfregarono finché non sentirono il vello disfarsi e si furono bagnate le dita del primo sangue, ma era un sangue drogato che bruciò loro le mani. E quando Gioele vide gli agnelli morti piagati pensò a malattie che non conosceva, a una malia o una disgrazia, ed ebbe dolore, e con dolore parlò la sera a Gisela e Claudine, e Gisela e Claudine si abbracciavano e piangevano, ché le bestie morivano i campi seccavano e la casa cadeva a pezzi, e tanto valeva vendere tutto e cercare di farsi una vita in città.
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Gioele e Spartaco sapevano aspettare. Nei mattini di sole capitava che guardassero il fiume bianco luccicare ai piedi delle case, fino al porto. La città era grande, le barche passavano sotto i ponti ed era un sospiro di legna e urla di marinai, e le ragazze vestite di trina si fermavano lungo le balaustre coi petti gonfi e fiori nei capelli, e sorridevano agli uomini come fosse primavera, come fossero già sfracellate lungo un canale di corpi pieni e disfatti, di proliferazione.
Ogni giorno nel fresco della bottega Claudine si piegava sui tagli di vacca e d'agnello, passava le mani sulle bestie esotiche e le dissezionava secondo un istinto di scomposizione o un intuito per la base dei nervi, le intersezioni, i nodi che trattengono la vita nella sua maglia nervosa e muscolare. Gisela, invece, teneva i conti della macelleria e si compiaceva della figlia, se si passava le mani sul grembo e le dita lasciavano una ragnatela umida sulla superficie della pancia pulsante. Ogni sera contavano i soldi e tornavano a casa con una borsa di cuoio spessa e una carta di manzo o altra carne se avanzava sul banco e la drogavano su un ceppo di legno e la cuocevano in una pentola nera alla base del camino. Gioele e Spartaco rientravano quando tutte le navi erano passate lungo il fiume bianco ai piedi delle case e Gisela serviva la carne e mangiavano in silenzio. Quando i piatti erano vuoti Gisela e Claudine si ritiravano, Gioele scaldava una pentola d'acqua sul fuoco radunava i piatti versava l'acqua grattava un pezzo di sapone nell'acqua lavava i piatti del sangue e delle droghe e lavava le mani e i polsi e gettava l'acqua fuori della porta e passava la ramazza e versava altra acqua e altro sapone sulle pietre e strusciava lo straccio finché il pavimento non era bruno e poteva asciugare al silenzio della luna. Una sera Gioele passava appunto lo straccio quando si piegò e cadde sul pavimento ancora sporco.
Gisela e Claudine rientravano a casa a buio fatto, ogni sera portavano una carta piena di viscere o altra carne se avanzava sul banco e ne facevano stufato e mangiavano in silenzio. Poi Gisela raccoglieva gli avanzi in una scodella e Claudine radunava i piatti versava l'acqua grattava un pezzo di sapone nell'acqua lavava i piatti e sospirava, così colma di stanchezza e già lo si poteva vedere del seme di un uomo che la sera si affacciava sulla soglia con un mantello da ufficiale e i mustacchi arricciati coi ferri. Mormoravano il militare Ranieri e la macellaia Claudine sulla soglia della casa di città al silenzio della luna. Gisela impartiva cucchiai di carne avanzata, Gioele apriva allungava la lingua gialla e si lasciava imboccare, le mani afflosciate sul petto carezzavano il lenzuolo e il letto era un giaciglio di paglia e aveva un odore dolciastro. Quando era stanca Gisela lasciava la scodella per terra e si ritirava. Spartaco leccava ciò che era avanzato.