Per la festa della primavera le madri insuperbivano le figlie con nastri e pettini di corno. Negli armadi, in ogni armadio, stecche di balena inturgidivano corpetti, aprivano a corolla gonne cremisi e ponsò, e poi tuniche e scialli, fiorami dipinti, cuffie sugli zigomi e le nuche fresche di sapone e carni morbide e fondenti, arricciate appena sulle capigliature rame e castagna, organze croccanti sulla linea dei fianchi. Giri di vita vertiginosi allacciavano gli addomi di fasce cangianti. Le fusciacche arrivavano già intessute dalle navi che ogni mese salpavano dal porto a caccia di schiavi. Le madri aspettavano sul molo gli armatori, gli armatori trattavano, gengive nere e mani inanellate. I marinai estirpavano matasse dalla pancia dei velieri, le donne le riponevano fra le cocche dei grembiuli e le portavano a casa. Così abbigliavano le figlie per la festa del solstizio.
Erano sere imprecise. Il seme dei fiori indorava i vetri delle case, le pietre e il fogliame di una prurigine odorosa. L'aria, sfocata, era fresca e impediva di pensare. Claudine nettava le trippe in conche di marmo. Aveva gomiti sbucciati, muoveva le trippe nell'acqua e le dita nelle trippe, raccoglieva le sostanze e le diluiva nell'acqua finché l'acqua si faceva scura e penetrante, gettava l'acqua limacciosa nell'orto e ritornava a nettare le trippe con le stesse dita e gli stessi gomiti, finché tutte le superfici si erano fatte bianche e la merda era tutta iniettata e dispersa nell'acqua. Poi Claudine recideva bietole nell'orto e ne faceva coste e parti verdi. Soffriggeva le foglie e accompagnava la trippa con crostoni e molliche, su una tovaglia macchiata di vino. Ranieri Gisela e Caludine mangiavano quelle cose. Quando avevano finito Claudine cucinava una zuppa col brodo della trippa e le coste di bieta. Gioele beveva la zuppa e si faceva gocciolare le coste sulla barba.
La festa era vicina. Dopo mangiato i giovanotti invadevano i campi e le ragazze della città si ritiravano. Rammendavano gli abiti, provavano le scarpe e con la testa nelle palme contavano le perle in fila dei loro gioielli.
Al centro della camera di Claudine c'era una lastra grande come un ritratto, accanto alla lastra ardeva una bugia e un vaso di clivie, con le foglie arricciate a nastro e i globi arancioni spenzolanti nel buio. Sulla superficie della lastra Claudine specchiava le proprie dita che liberavano i capelli e poi le spalle dai lacci e dal vestito. S'imporporava le labbra e le guance, raccoglieva i capelli in ciocche e le ciocche in riccioli, su una spalla e su un'altra, lungo la linea del collo. Sentiva il petto oppresso e ne liberava le masse tumide, che dondolavano col movimento del suo respiro, oppure se ne colmava le mani e le accoppiava sotto le carene delle clavicole imitando il disegno di un abito da festa. E mormorava: la più bella. Poi un pensiero la scuoteva, prendeva fra le palme i lembi della fusciacca e ne cingeva la vita, misurando il proprio profilo di macellaia bambina allo specchio. La sciarpa, color veratro e oro, si arricciava in un fiocco appena sopra le reni. Sul davanti riluceva del peso, ormai evidente, del seme di Ranieri, e la sfigurava.
Claudine gonfiò il petto e cercò di slanciare con la postura la propria persona, così nuova, appesantita. Fuori tracciavano l'aria i primi spari. Le ragazze della città rammendavano gli abiti e con la testa nelle palme immaginavano quel che sarebbe accaduto per la festa del solstizio. Claudine si piegò su proprio figlio e non si accorse che la rabbia le scuoteva le spalle come piccoli colpi di maglio.