Particolarissimi musici zappiani
nell'intimo, questi Camembert. Senza
troppi preamboli, il loro album - centellinato nel tempo (3 anni di duro lavoro
in sede di costruzione) – si ispira ad una peculiare lezione del Duca delle
Prugne, ovvero quella dei primi anni Settanta quando nei dischi di Zappa si percepiva benissimo una
centralità fiatistica quasi orchestrale. Il riferimento corre veloce veloce a Waka
Jawaka e The Grand Wazoo, incluse alcune successive felici ricadute
nel prodigioso live Roxy and Elsewhere. Ecco: lì potremmo trovare già
tutto per capire quanto di buono vi sia in Schnörgl Attahk. Non si
tratta affatto di una clonazione, semmai di un'intelligente imitazione di un
modello strutturale, dato pure dall'eterogeneità dell'ensemble strumentale di
cui si dota la compagine transalpina. Trio chitarra-basso-batteria arricchito
da interventi di sax, vari idiofoni percussivi, trombone basso, tuba,
didgeridoo e arpa. Nel dettaglio la chitarra di Vincent Sexauer vive di una
profonda mimesi timbrica zappiana: inconfonbile il grado di saturazione, le
pressioni sulla leva del vibrato, il controllo del wah wah, le scale sui bassi
e quelle sugli alti in un ambiguo registro modale (Le meurtrier volant, La
danse du chameau. Batifolade e The final run).
Una scrittura vivace per un plot
demenzialfantascientifico ricco di estrosa ironia ma che, comunque, passa in
secondo piano rispetto alle ricercate tessiture musicali ordite dai Camembert.
Ospite alla chitarra Francesco Zago (Yūgen)
in Untung untungan 2.0. Ovviamente non mancano fuoriuscite dal cerchio
epigonico zappiano (i soundscape freak di Infincheese, l'ambien minimal
di Clacos 1: Notre mère à tous, il Philly Sound di El routuav ed sram,
primordiali passaggi di jazz rock davisiano in La danse du chameau. La
tempête de sable), però, poi, alla fine, si casca sempre lì... E non ci si
fa male, comunque.
© Riccardo Storti