Giorni fa vi abbiamo presentato “The Danish girl” di Tom Hooper; oggi è la volta di un’altra anteprima cinematografica presentata a La Biennale di Venezia: “Mountain” di Yaelle Kaiam.
Mountain, opera prima della regista Yaelle Kaiam, ambientato sul Monte degli ulivi, incrocio di ben tre religioni monoteiste, racconta, con pochi dialoghi e immagini molto incisive, la doppia vita di Tzvia, moglie e madre di quattro figli, in crisi con la sua femminilità e disposta a tutto pur di ritrovare l’intimità con il marito.
L’intreccio si svolge in due location nettamente contrapposte: la casa di Tzvia e della sua famiglia, regno dei “Vivi”, e il cimitero, di giorno silenzioso, di notte, luogo di piacere.
La casa è il luogo in cui la donna, con abiti larghi e chiari, si dedica alla sua famiglia, alla cura dei figli e alla cucina, trovando ormai poca soddisfazione nelle consuete abitudini quotidiane, che sembrano appesantirla.
Complice la distanza col marito Reuven, che sembra rifiutarla e non desiderarla. Una notte Tzvia, triste, confusa ed in cerca di aria, si addentra nell’oscurità del cimitero, e finisce per essere attratta dai gemiti di una coppia intenta a fare sesso su una lapide.
Comincia ad insinuarsi nella sua coscienza una morbosa curiosità, che porta la donna ogni sera a tornare in quel luogo di perdizione e la spinge stringere un insolito rapporto con le prostitute che si nascondono con i loro amanti nel luogo dei “morti”.
Mountain è il viaggio di una coscienza, che sceglie di non sottomettersi totalmente alle abitudini che la vedono schiava di una vita che non sente più sua, e disperatamente cerca, immersa in lunghe camminate tra le lapidi, una fuga ed un’alternativa alla solitudine.
Il confine tra giorno e notte, tra la donna regina del focolare domestico e la prostituta, è netta, come sono ben delineati i contorni di ciò che accade: durante la giornata tutto è scandito da orari, abitudini, rituali.
L’oscurità della notte è invece popolata da prostitute e da anomali personaggi ed è caratterizzata dall’unico piacere che si concede Tzvia: il voyerismo, che sembra voler appagare quella mancanza di unione fisica e spirituale che la donna non trova più nel rapporto intimo con suo marito.
Umiliata in casa e ferita dalle parole di una delle due prostitute, Tzvia, capovolge la situazione con l’unico nutrimento e piacere che riesce ancora a concedersi e a donare agli altri: la cucina.
Il cibo, diventa riscatto di una vita e potere nelle mani di Tzvia, che prepara manicaretti per la famiglia e per gli oscuri personaggi che incontra la notte: condannata ad una discesa tra le zone più oscure della sua coscienza, e lontana dalle consuete abitudini che la vogliono moglie e madre perfetta, architetta cinicamente – e molto freddamente – la sua personale vendetta.
Epilogo non felice, ma apprezzabile la scelta di lasciare al pubblico l’interpretazione della condanna stabilita da Tzvia.
Written by Sarah Mataloni