Specialità, autonomia e riforma del Titolo V

Creato il 08 aprile 2014 da Alessandro Zorco @alessandrozorco

E’ bastato un presidente del Consiglio dei ministri decisionista a mettere in discussione sessant’anni di storia autonomistica in cui la politica sarda ha fatto poco e niente per difendere la specialità e l’autonomia della Sardegna. Da un po’ si discute della necessità di eliminare le regioni a Statuto Speciale, da molti considerate in tempo di crisi e di scandali un anacronistico privilegio fonte di ulteriori sprechi, ma questa volta la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta da Matteo Renzi per cercare di mettere fine ai sistematici conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e offrire agli italiani una pubblica amministrazione più trasparente, rischia veramente di cancellare come una spugna la specialità, nonostante questa sia giustificata dalla sacrosanta necessità di stabilire pari condizioni tra tutte le regioni italiane. Eppure la specialità della Sardegna, inserita e declinata in uno Statuto rimasto spesso lettera morta, nel corso degli anni è stata già cancellata e resa inefficace dall’insipienza di una classe politica che, a Cagliari come a Roma, è stata spesso più attenta a coltivare i propri privilegi che a difendere gli interessi della comunità.

La vertenza specialità

“Vigileremo affinché la riforma in discussione in Parlamento, che al momento non si applica alle Regioni speciali, non intacchi il patrimonio di democrazia autonomistica inciso nello Statuto di autonomia e nelle sue norme di attuazione”, ha dichiarato nei giorni scorsi il neogovernatore della Sardegna Francesco Pigliaru, che in questo primo periodo di mandato appare per la verità un po’ spaesato e sottotraccia. Quasi succube rispetto ai partiti che ne hanno sostenuto l’elezione. Nella conferenza Stato-Regioni e nelle riunioni con gli altri governatori italiani Pigliaru ha comunque assicurato che tutelerà “i nostri spazi di sovranità attuali e futuri”.

Eppure la nuova riforma del Titolo V della Costituzione, mettendo in discussione il concetto stesso di specialità, mette in forte imbarazzo soprattutto il Pd isolano, che in fatto di autonomia non è stato finora molto ferrato. Solo pochi mesi fa, incapaci di sciogliere il nodo della candidatura alle regionali di Francesca Barracciu, vincitrice delle primarie ma indagata per lo scandalo dei fondi ai gruppi del Consiglio regionale, i democratici sardi avevano chiesto allo stesso Renzi, appena eletto alla guida del partito, di sciogliere il dilemma politico. Poi risolto all’italiana, come si è visto, con la concessione di una poltrona da sottosegretario alla Barracciu, indotta dalla diplomazia democratica a fare un generoso passo indietro e rinunciare alla candidatura alle regionali per il bene del centrosinistra. Con buona pace degli elettori delle primarie e dei due euro spesi per foraggiare la consultazione popolare.

Ma il Pd ci aveva abituato a questa subalternità da Roma: nel 2008 aveva subìto addirittura l’onta del commissariamento romano (chi non ricorda il baffuto commissario Achille Passoni) dopo la faida interna scaturita dall’elezione alla segreteria regionale della stessa Francesca Barracciu. Faida interna che, un mese prima, aveva provocato persino le clamorose dimissioni di Renato Soru dalla presidenza della Regione.

Nei giorni scorsi, riporta la cronaca, la Direzione regionale del Pd ha bocciato con forza la proposta di Renzi di riformare il controverso Titolo V della Costituzione in quanto “rischia di intaccare il patrimonio di democrazia autonomistica inciso nello statuto sardo e nelle norme di attuazione”. Ma con quale forza un Pd così poco autonomo rispetto al partito nazionale può affermare che “l’autonomia della Sardegna ha una tradizione antica e forte, espressione di un popolo con un’identità radicata e responsabile”? E soprattutto con quale forza può difendere la specialità sostenendo  – come si legge giustamente nel documento – che “non è un intollerabile privilegio, ma la base di politiche di riequilibrio europee fondate su parametri misurabili e necessarie alla valorizzazione delle diversità tra territori”.

Certo, difficilmente potrà difendere la specialità della Sardegna anche un partito come Forza Italia, ieri Popolo delle Libertà, noto per la sua incapacità di scegliere autonomamente i propri candidati regionali, demandati sistematicamente alle decisioni unilaterali del padrone delle ferriere. Anni di lavori parlamentari hanno dimostrato quanto gli esponenti berlusconiani siano stati capaci di disubbidire ai diktat romani per difendere gli interessi dei sardi e della Sardegna.

Ora – per evitare di subire passivamente le scelte del Governo Renzi – qualcuno (l’associazione Carta di Zuri) ripropone la cara vecchia Assemblea costituente per la riscrittura dello Statuto speciale e ricorda, con un po’ di nostalgia mista a rassegnazione, la partecipazione e mobilitazione che accompagnò le stagioni della rivendicazione per l’Autonomia e la Rinascita, “decisive per la prima modernizzazione dell’Isola”.

Modernizzazione che però in tutti questi anni purtroppo non c’è stata perché, ce lo ricorda la storia, la enorme mole di finanziamenti messi a disposizione dallo Stato italiano per ricompensare il grande tributo di sangue che la Sardegna offrì in guerra è stata sprecata con i grandi e inutili piani di rinascita del dopoguerra che, lungi dall’ottenere il risultato della “piena occupazione”, hanno riversato enormi ricchezze nelle mani di pochi potenti industriali sconvolgendo la già povera economia isolana in nome di una industrializzazione senza futuro.  La modernizzazione non c’è stata perché i trasporti, nonostante l’enorme gap dell’insularità, sono rimasti al palo e oggi la continuità territoriale, sia aerea che marittima, sia merci che passeggeri, è ancora un’utopia. Perché la Sardegna continua ad essere la regione italiana con il maggior tasso di disoccupazione giovanile e dispersione scolastica. Perché nel corso degli anni una enorme mole di finanziamenti pubblici, in particolare quelli erogati dall’Unione Europea, non sono stati utilizzati per creare seri progetti di sviluppo e duraturi posti di lavoro, ma sono stati sprecati e indirizzati in mille rivoli privi di sbocco.

Sicuramente, come afferma giustamente il Pd sardo, “la specialità non è un intollerabile privilegio”. Rischia però di diventarlo se viene sprecata senza criterio. Per questo l’unica fonte di vera autonomia per la Sardegna, e per la stessa Italia, in questo momento è prima di tutto una classe politica – e questo vale per tutti gli schieramenti – capace di rimboccarsi le maniche e mettere a frutto le tante opportunità esistenti in questo momento. Mettendo alla porta tutta quella politica autoreferenziale e litigiosa che si lava la bocca con parole come autonomia e specialità ma alla fine utilizza il potere solo per aiutare se stessa e i propri amici. Quel tipo di politica, a prescindere dalla specialità e dalla riforma del Titolo V, non ha nulla a che vedere con la storia autonomistica della Sardegna. Non è politica: è soltanto esercizio di potere e schiavitù.


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