La storia è questa. All’1.30 di un sabato notte due auto si toccano, in prossimità di uno svincolo. Una si cappotta, e due persone a bordo restano imprigionate dentro, senza poter uscire. L’altra esce e chiama il 113, questione di minuti. Nel frattempo sul luogo arriva un’altra macchina: si ferma, accosta, e il guidatore scende per prestare soccorso (e fornire alla vicenda gli scomodi occhi del lucido testimone). Passa un minuto, e subito è in arrivo un’altra auto: a bordo ci sono due ex-alunni della ‘povna (insieme, a somma, non fanno nemmeno quarant’anni): Canto e Bellini. Vedono l’incidente; sono stati educati al rispetto del prossimo; si fermano: vogliono aiutare. Non fanno nemmeno in tempo a scendere. Una BMW, sparata a bomba nel cuore della notte, subentra veloce come il fulmine. L’utilitaria minuscola dei due studenti viene accartocciata e aperta, come scatola di sardine. Canto muore sul colpo. Bellini – lesioni e fratture varie in tutto il corpo – viene portato all’ospedale. Adesso è in coma. Aspettano che si risvegli, e intanto cercano di radunare il meglio di una équipe per operarlo: perché, nonostante l’ospedale in cui è ricoverato sia uno dei migliori sulla piazza, per fare tutto quello che ci sarà da fare per tentare di rimetterlo in sesto servono i migliori di Italia.
Il conducente della BMW (il cui contachilometri si è cristallizzato, immobile, sui 180) se la caverà con qualche graffio. Mette conto (perché lo sceneggiatore, quando è stronzo, è stronzo) raccontare che era un disabile (l’automobile era di quelle riadattate a comandi manuali). E non per fare del facile razzismo, ma per dire che l’incidente che lo aveva ridotto a paraplegico era accaduto ora sono una decina di anni, quando colui che è adesso indagato per omicidio colposo era stato travolto da un’auto, mentre se ne andava tranquillo in bici, per la strada.
E la ‘povna – che da quando l’ha saputo sta lì a guarda il muro a occhi sbarrati, come la scuola tutta (e aspetta con ansia notizie – Bellini era dei Matti – da Melissa e dal Leone) – sa bene che non si deve ragionare di petto e di pancia, e che la responsabilità è personale. Eppure, suo malgrado, non riesce a far tacere una voce petulante. Che le ripete (del resto, non lo pensa da oggi, tanto è vero che lei sull’auto ha fatto, per ragioni sociali e ambientali, obiezione di coscienza) che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in una società basata così solo ed esclusivamente per tutto, anche quando non servirebbe, sul trasporto individuale. E per favore non ripetetele che “sì, ma, per il lavoro, per spostarmi, per la spesa, la famiglia ne ho bisogno”. Perché basterebbe girare la proporzione, tutta quanta. E costruire un mondo dove il servizio pubblico sia tale, di buona qualità e diffuso capillarmente, in modo da rendere, per tutti, davvero poco conveniente pensare ad altro tipo di soluzione. Così da non elevare il feticcio dell’auto a uno dei tanti – onanistici – placebi tecnologici di questa povera Italia.
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