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Spesso gli sbirri e i carabinieri al loro dovere vengono meno written by Nicola Fabrizio Fanigliulo

Da Parolesemplici

Spesso gli sbirri e i carabinieri al loro dovere vengono meno written by Nicola Fabrizio FanigliuloMi dissero solo: “Spostali, disperdili, fagli capire che non possono stare lì”

Non venne specificato il motivo, era una questione di principio.

La legge proibisce l’accattonaggio, anche quando lo si fa per un sogno. Del resto non l’accetta quando lo si fa per fame.

All’epoca abitavo proprio di fronte alla fermata della metropolitana di Piazza Verdi, a pochi metri da dove “il collettivo di Piazza Verdi” si esibiva.

Nessuno dei vicini si era mai lamentato…

E dire che a volte il collettivo metteva in piedi delle jam session con oltre venti elementi.

E dire che a volte bisognava fare lo slalom tra i musicisti per riuscire ad entrare in metro.

Bisognava fargli sgombrare punto e basta, era la regola.

E quando sei un carabiniere il tuo lavoro consiste nel far sì che gli altri ubbidiscano alle regole, punto e basta.

“Domani mattina voglio che gli disperda”.

Domani mattina sarò di nuovo in divisa e dovrò far rispettare le regole… ma questa sera, questa sera tornerò ad essere un uomo in borghese, sarò un uomo e come uomo andrò a parlare a quella gente.

Così pensavo e senza divisa quella sera scesi in strada, deciso a capire perché quel gruppo di persone riscuotesse tanto successo, perché nel berrettino onnipresente sul marciapiede dello spiazzale si trovavano spesso banconote da 5 e 10 euro, e ancora perché sembrava che i suonatori non fossero mai gli stessi.

“Perché non siamo mai gli stessi…” – mi rispose un ragazzo -”Qui può aggiungersi chi vuole… basta seguire le regole”

“Regole, quali regole ?… C’è un codice segreto ?”

“Ma quale codice segreto…” – mi rispose il ragazzo che aveva in mano una piccola fisarmonica – “Lei crede che noi siamo tutti qui per i soldi ?”

“Bè ovvio… perché stare qui sotto al freddo ?”

“Si è vero, siamo qui per i soldi, ma non tutti… e comunque nessuno solo per quelli”

Mentre parlavamo il “collettivo” continuava a suonare…

“Ma li vede quei due…” – e mi indicò un ragazzo seduto a terra con la chitarra e una ragazza in piedi con un flauto traverso – “Bè quei due sono quelli che hanno inventato la regola”

“Sono i capi ?”

“Non ci sono dei capi. Sono solo degli iniziatori, la regola non è mai stata dettata, un giorno qualcuno è arrivato qui e ha capito quello che stava succedendo”.

Continuavo a non capire. Dietro di noi la “banda” continuava a suonare, c’erano flauti, violini più di una chitarra, un violoncello, delle percussioni…

“Faccia un attimo silenzio” – mi disse il ragazzo – “e ascolti solo la musica. La sente come è varia, come è allegra, come è piena di vita” feci silenzio e ascoltai era la classica melodia del “collettivo” un sound che per me che abitavo lì di fronte era diventato facilmente riconoscibile.

“Bene ora ascolti solo il suono di quella chitarra” e mi indicò il ragazzo seduto

La chitarra suonava malinconicamente, lenta, un giro triste che al primo ascolto sembrava stonare con il resto ma che in realtà lo rendeva solo più bello, più completo.

“Vede, la storia ormai si tramanda tra noi musicisti…”

Mi raccontò una storia assurda. Ancora adesso fatico a crederci.

Mi disse che il primo componente del gruppo fu quel ragazzo con la chitarra che si sedette sul marciapiede: iniziò a suonare, non per soldi, badate bene, ma perché aveva bisogno di suonare e aveva bisogno che qualcuno lo ascoltasse.

La sua musica era il suo lamento, ogni nota un sospiro, ogni accordo una lacrima, accordi e note, ripetuti come una litania, poche variazioni nessuna creatività.

Poi arrivò la flautista.

Nessuno sapeva se il chitarrista e la flautista si conoscessero già da prima ma, da come si guardavano, in molti pensavano di si.

La flautista suonava una melodia completamente opposta: era viva, vibrante,  passionale, creativa, ma a ogni nuova nota, ad ogni nuova invenzione della ragazza, la chitarra continuava a rispondere con lo stesso lamento, con la stessa litania.

Passarono diversi giorni così, la gente gli dava anche dei soldi, ma i pochi spiccioli che quei due riuscivano a guadagnare rimanevano sempre lì, fermi sul marciapiede, li lasciavano lì ed erano i barboni della zona che a tarda notte se li spartivano.

Poi arrivò il primo membro del collettivo, un violista:

“Perché, vede, noi siamo il “Collettivo”, noi lo facciamo per mestiere, loro sono qui per tutt’altro motivo” mi disse il ragazzo.

Alla parola mestiere risi innocentemente, ancora non avevo capito di cosa parlasse, ma cercai di non darlo a vedere e domandai soltanto:

“e allora perché sono qui ?”

“Bè nessuno lo sa per certo… ma siamo tutti convinti che il “primo flauto” stia cercando di consolare “la prima chitarra”

e per questo cerca di proporgli sempre dei nuovi toni, delle nuove melodie, per riuscire a distoglierlo dal suo lamento… e riuscire a fargli suonare finalmente qualcosa di nuovo”.

Fu la prima volta che usò quei ,”primo flauto” “prima chitarra”, in seguito capì che nessuno conosceva il nome dei due iniziatori, poiché loro non parlavano mai, loro comunicavano suonando.

“E voi invece cosa ci fate qui ?”

“Vede quando il ragazzo col violino, che si chiama Roberto… vede quel tipo li con gli occhiali, ecco quando lui arrivò qui capì al volo quello che stava succedendo… e decise di provare ad aiutare il primo flauto nel suo intento”

“Aiutare il primo flauto”

“Si voleva creare dal vivo, insieme a lei una melodia così bella, così viva, da costringere la “prima chitarra” a cambiare registro… per uniformarsi ad essa.. a lui forse non importava nemmeno della tristezza del chitarrista, sapeva però che essa poteva essere usata per raggiungere un fine più grande, capì di poter entrare a far parte di qualcosa di grande; e se la musica non bastava a gratificarlo, li arrivarono anche i soldi.”

“Perché lui i soldi li prese…”

“Certo che li prese, come li prendiamo tutti noi, siamo qui per mestiere, e a fine serata ci li dividiamo, solo che a differenza di tutti quelli che passano di qui per andare a lavoro, noi facciamo un lavoro che ci piace e che riteniamo utile a qualcuno.”

Iniziavo a capire, era assurdo, impensabile, lì sotto il cielo grigio della metropoli, affianco a migliaia di persone che di fretta si dirigevano ognuno ai propri posti di lavoro, lì di fronte allo squallore dei palazzi, sopra il nero dell’asfalto, un gruppo di persone di ogni età e di ogni ceto sociale si era riunito per dar vita al rito magico.

“Vede, in alcune culture dell’Africa esiste l’idea che la musica possa guarire le persone, possa aiutarle a livello sia fisico che mentale. C’è chi la usa per praticare degli esorcismi rituali…”

Mi venne in mente la storia di Orfeo, che suonando riusciva a rendere mansueti gli animali feroci: a pensarci bene anche lui suonava il flauto.

“Quello che ancora non capisco”, domandai, “è quale sia la regola di cui mi parlavi prima”

“Seguire sempre il flauto, mai la chitarra”

“E non c’è nessuno che canti?” domandai ancora.

“Un giorno” rispose il ragazzo “passò un signore, si sedette in mezzo a noi, ma non avea nessuno strumento, tutti pensammo che stesse per cantare… poi tirò fuori un tacquino e una penna e sul primo foglio scrisse soltanto

“e invece tu grida forte, la vita contro la morte”

Di seguito capimmo che non un testo… era LA REGOLA

(di seguito il ragazzo mi disse che quell’uomo non si era più fatto vedere)

Avevo i brividi, mi commossi, ricordai una frase che avevo letto da qualche parte diceva “nella vita di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui, si chiama disperazione, l’anima è piena di stelle cadenti”

Lì davanti a me c’era un gruppo di persone che di certo non avrebbe salvato IL MONDO, ma che comunque stava provando a salvare un mondo, come in un assurdo e fantastico tentativo di riuscire a fermare una stella cadente.

“E nessuno ha mai disubbidito alla regola?” domandai

“L’ho fatto solo io…” rispose il ragazzo

“Ero qui nel giorno in cui avevo perso il lavoro, venni ad ascoltarli, ero a terra, capì la regola, la intuì al volo, ma decisi di disubbidire, decisi che la mia fisarmonica avrebbe seguito la chitarra, avrebbe cantato la morte, la tristezza il dolore. Non durai a lungo però, il suono dei violini, dei flauti, delle percussioni, mi inebrio, sentì la vita che mi scorreva dentro, e iniziai a seguire il flauto. Fui come guarito e so, che prima o poi, quello che è successo a me succederà anche alla prima chitarra”

“Cosa farete allora quando avverrà ?” gli chiesi infine

“Non lo so… c’è chi sostiene che andremmo avanti in eterno, che in realtà non c’è nessuna differenza tra il flauto e la chitarra, sono due facce delle stessa medaglia, la chitarra è nata per prima, il flauto ne è soltanto l’antitesi e in qualche modo necessita di avere una chitarra. Ma se la chitarra iniziasse a suonare come il flauto, o se il flauto si arrendesse alla chitarra (perché anche questo è possibile, anche se nessuno lo pensa) forse tutto questo non avrebbe senso… molti dicono che se questo accadesse non ci resterebbe altro che smettere di suonare.”

Sembrava di sentir parlare la caricatura metropolitana di un filosofo idealista, ma il ragazzo aveva le sue ragioni e la musica che faceva da sottofondo alle sue parole contribuiva a convincermi che lui aveva ragione.

Non parlammo più, tornai a casa riflettendo, pensavo a quello che avrei dovuto fare la mattina successiva, pensavo al mio di lavoro e al loro lavoro, alle mie regole, e alla loro regola.

Si è vero loro stavano disobbedendo ad una regola, ma al contempo stavano obbedendo ad una più grande.

Pensai tanto quella notte, pensai alla vita, pensai alla morte, alla gioia alla tristezza, al piacere e al dolore… e la musica che vedeva da fuori le finestre, sembrava fare da contorno ai miei pensieri, perché, nonostante tutto, riuscivo ancora ad ascoltare il suono del flauto e quello della chitarra.

A tarda ora erano rimasti da soli a suonare, mi addormentai lasciandomi cullare da loro… volevo sapere chi avrebbe smesso per primo, ma mi addormentai prima di riuscirlo a scoprire.

Il giorno dopo mi recai in caserma, dissi al mio superiore che non accettavo quell’incarico, e con grande sorpresa scoprì che  per lui non era un problema, se non lo avessi fatto io, lo avrebbe fatto qualcun altro.

Il giorno dopo il collettivo non c’era più.

Piansi.

Piansi per la fine di un sogno, per la caduta dell’ultima illusione, l’ultimo balurardo di resistenza della magia, della fantasia, piansi pensando a tutte quelle volte che avrei potuto godere di tutta quella bellezza. Invece ci ero passato davanti così… come tutti gli altri, di fretta, piansi per tutto quello che mi ero perso.

Andai a lavoro e chiesi a un mio collega a chi fosse stato destinato l’incarico di far sgombrare il collettivo, mi rispose…

“Lo hanno affidato a me…”  e stavo a per prenderlo a pugni, ma poi aggiunse “ma non ce ne stato bisogno, sono arrivato questa mattina e loro già se ne erano andati”

Risi.

Capì che il sogno era finito (non so come), o forse ne era iniziato un altro molto simile da qualche altra parte nel mondo, ma non mi importava,

Era sufficiente che non fosse morto, come tutti gli altri, ucciso dalla realtà.


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