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Ho conosciuto da poco Firenza Guidi, e ne ho avuto l'occasione assistendo ad un suo spettacolo, proprio sul tema dell'Olocausto.
Ho continuato a seguire, un po' partecipando, un po' distanza, le attività del suo centro, ElanFrantoio.
Sabato sera, scorso, negli spazi dell'auditorio di Parco Corsini, ElanFrantoio ha messo in scena, per il pubblico:
Auschwitz (2012)
viaggio/lettura/coro/installazione in memoria delle vittime dell'Olocausto.
Una performance pensata e realizzata per le scuole medie inferiori del circondario, alla sua quarta edizione, quest'anno abbinata al progetto Diari.
Ho assistito allo spettacolo accompagnato dalla mia bimba e da due sue amiche, che frequentano, anch'esse, la seconda media.
La performance si ispira ai numerosi viaggi di Firenza, ai campi di concentramento di Auschwitz. E come lei stessa ci spiega nel presentare l'evento, vuole raccontare un momento storico che non ha uguali per il danno fisico, materiale e spirituale provocato a milioni di esseri umani, facendolo rivivere per gli spettatori.
Spettatori che, nello stile di Firenza, attraversano lo spettacolo itinerante, diventandone parte ed elemento.
Lo spettatore si mischia alla scena, entrando nella narrazione fisicamente, prima ancora che cognitivamente.
Lo spettacolo-viaggio ha inizio davanti al cancello di Auschwitz, su cui è riprodotta la scritta "ARBEIT MACHT FREI", il lavoro rende liberi.
Lo attraversiamo, e il cancello si chiude dietro di noi, con suo freddo, comune, suono del ferro che sbatte con ferro.
Ci allarghiamo attorno ai binari, ed entrano i resto degli attori. Un gruppo di donne appena scaricate da immaginari vagoni merci, con ancora le loro valigie. La scena è subito violenta, urlata.
Le grida appaiono reali, come gli spintoni, la ghiaia che ci corre fino alle nostre scarpe.
Il Kapò, il detenuto che nel campo esercitava il comando su altri deportati, che sceglie, tra le nuove arrivate, una Kapò.
Seguiamo le donne. Assistiamo all'espoliazione della loro identità, all'attribuzione del numero.
La sala dove vengono private dei loro vestiti, dei propri capelli, dei primi pezzi della loro identità.
L'ambiente è chiuso, illuminato nelle zone cruciali, il resto in penombra. Ancora violenza, soprusi, l'acqua fredda in cui sono costrette a lavarsi, che ci arriva in faccia.
Proseguiamo, come in bilico sulla voragine in cui le donne stanno precipitando, seguendole, dietro alle loro paure, ai loro pianti, ai loro lamenti. Più scendiamo nella voragine, più cresce la nostra emozione.
Passaggio cruciale è la camerata, i letti di legno, a castello, dietro di noi, la latrina di fianco la tavolo, davanti a noi.
Le donne, il Kapò e la Kapò, ogni tanto il soldato nazista, tutto ci gira attorno. Ci muoviamo per evitare di essere travolti-coinvolti. In quella stranissima situazione in cui sai di non essere uno di loro, ma stai vivendo con loro. Che vedi soffrire, ma che non puoi fare niente per evitarlo. Come in quei brutti, cattivi sogni, in cui la paura non ti fa venire neppure il fiato per gridare.
Firenza ci fa da guida, come Virgilio guida Dante nell'al di là, scendendo con lui nel cratere dei gironi infernali, ma senza apparente aiuto. Ci sentiamo trasformati da spettatori a testimoni, fino alla conclusione, alla soluzione finale. Fino al buio della camera a gas. Dove entriamo con le attrici, mescolati tra loro, che ci investono con le loro concrete paure, che si mischiano al nostro disorientamento, alla nostra incredulità.
Amplificato dal soffiare e dall'odore acre della nebbia artificiale che ben presto avvolge e satura il piccolo ambiente, tra i pianti e le urla delle attrici.
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