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C'è un po' di Elena Alving e Osvaldo in tutti noi. Potremmo essere loro, oggi, noi stessi, o sedergli vicino su un vagone ferroviario, o potrebbero essere invece i nostri vicini di casa. È un dramma che si consuma quotidianamente, in un dolore silenzioso, all'oscuro delle opinioni, della politica. Si sa, esiste questa realtà sotterranea ma non se ne parla, non viene posta al centro del dibattito pubblico. Eppure, quest'opera scritta da Henrik Ibsen nel 1881 durante il suo soggiorno Italiano, ci segnala quanto già allora il tema estremamente forte dell'eutanasia fosse sensibile e di non facile indagine. Quello che Ibsen ci lascia è a detta di molti un capolavoro; lo è certamente, per la complessità dell'argomento affrontato e per il modo in cui il drammaturgo norvegese sviluppa e fa emergere il dramma dei personaggi. Nonostante oggi tutti ne riconoscano la grandezza, questa polemica tragedia moderna ha trovato non pochi ostacoli durante i suoi primi istanti di vita.Rifiutata da tutti i teatri norvegesi e danesi, la sua prima rappresentazione avvenne a Chicago il 20 maggio del 1882. Soltanto il 22 agosto 1883 Spettri riuscì ad approdare in Europa, ad Helsinborg (Svezia), ma la consacrazione a livello internazionale iniziò a Berlino fra il dicembre 1886 e il gennaio 1887. In Italia fu rappresentata la prima volta nel febbraio 1892 da Virginia Marini e Ermete Zucconi, il quale si impose come protagonista nella messa in scena nel ruolo di Osvaldo. Bisognerà aspettare il 1921 per una lettura più aderente all'idea originaria che poneva al centro del dramma la signora Alving con Eleonora Duse, che riuscì a dare una nuova impronta e chiave di lettura per le successive rappresentazioni. La sua interpretazione fu tanto memorabile che Renato Simoni scrisse sul Corriere della Sera del 19 dicembre 1922: “Eleonora Duse trovò una semplicità così limpida e così nuova e così perfetta che per virtù sua la vita fluì in tutta l'opera, prodigiosamente. (…) Il gioco della voce, la meraviglia delle intonazioni, le miti luci e le terree ombre del viso, l'accorata e buona ironia del sorriso, la vita mutevole e significante delle mani di Eleonora Duse, resteranno lungamente nella memoria degli spettatori”. Letto questo commento, un po' si guarda con rammarico al calendario che segna 2011 e non 1921. Al di là della grande vitalità data dalla Duse alla figura di Elena Alving manca ancora in Italia una rappresentazione storica. Alla Duse si deve per prima il merito di aver trovato la chiave di lettura di questa tragedia che, indubbiamente, pone al centro la figura di Elena Alving, vedova dello sciagurato barone capitano Alving. Tuttavia il rigore borghese impone il silenzio e una certa apparenza spensierata e felice: dolori e spettri devono soffocare nell'anima. È attraverso i colloqui col pastore Malders che, inesorabilmente, emergono altre verità. Verità che sono appunto come spettri, non smettono di tormentare e tornano in un presente che vorrebbe disfarsene. Sono gli spettri appartenenti alla vita dissoluta dell'ex marito, dolori soffocati dal dovere sociale al cui peso Elena non resiste più, un dramma umano che macchia le vesti e non può che fluire ininterrottamente sino al suo tragico epilogo.Non si può sfuggire al ritorno degli spettri, non si può pretendere che svaniscano con la morte. Essi tornano, sempre, per compiere appieno la tragedia umana ed esistenziale. Elemento essenziale per lo sviluppo dell'intera tragedia è il ritorno del figlio Osvaldo da Parigi. Il lieto ritorno è però una bomba ad orologeria pronta ad esplodere: è la malattia la vera causa del ritorno, una malattia che Osvaldo ha ereditato dal padre e presto potrebbe condurlo alla follia. È questo il nodo principale intorno cui ruota tutta l'opera e dal quale si diramano le riflessioni e si sviluppa il dramma di Elena Alving. Dover accettare la sofferenza di un figlio, o rinunciare alla sua vita anticipandone la morte? È questa la soluzione auspicata da Osvaldo. Quale destino più crudele per una madre dell'esser arbitro della vita di un figlio? Eutanasia è chiamata oggi: un tema tanto delicato quanto nascosto ed evitato. Non è un caso che Spettri abbia attirato su di sé le critiche più aspre e dure, non solo dall'ala conservatrice ma anche da quella liberale. Sono discussioni che si eviterebbero volentieri, invece Ibsen e il teatro le portano con violenta e drammatica veridicità dinanzi ai nostri occhi.
Oggi le antiche polemiche sono ormai assorbite, come se un testo scritto nel passato non possa essere un valido argomento per il presente, ma se fosse stato scritto oggi, da un autore contemporaneo, non troverebbe forse le stesse resistenze? Non vi sono forse anche oggi vite segrete ed apparenti normalità borghesi che devono brillare con accattivanti sorrisi in società? E non c'è forse anche oggi chi soffre silenziosamente un dramma tanto umano, qual è la sofferenza di una malattia terminale e la dolorosa scelta di vivere o morire anticipatamente? Un testo da leggere e, soprattutto, da mettere in scena,che andrebbe analizzato e riscoperto, perché il teatro, di fronte a tematiche così forti, è l'unico mezzo che riesce a trasmettere con chiarezza e spiazzante verità l'intera tragedia umana. E poi, manca ancora quell'edizione memorabile che certamente dobbiamo, in segno di ringraziamento, ad un grande autore come Ibsen.
Recensione a cura di Alessandro Giova
SpettriIbsen HenrikBUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2008€8,00
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