L’uomo ragno, o Spiderman che dir si voglia, è un fumetto della Marvel che vede la luce la prima volta nel lontano ’62, anno in cui la democrazia americana era volutamente compassionevole e l’eroe per eccellenza era fortemente kennediano. Da quel momento in poi si sono succedute serie animate, web series, e videogame, ma il cinema, fino al 2000, non era ancora riuscito a dar vita a questo personaggio. Ci sono voluti anni di dubbi e riscritture, prima di decidere di affidare il progetto a Sam Raimi, regista divenuto famoso con il cult “La casa” ed il visionario horror “L’armata delle tenebre“. Mai scelta fu più azzeccata, nonostante la Columbia Pictures, casa di produzione dei tre film, nel 2012, quindi a pochissimi anni dal termine della trilogia , ha deciso un riavvio della saga cinematografica, totalmente distante dalle pellicole di Raimi. Certe scelte artisticamente sono incomprensibili, economicamente sono un amplesso. Ma concentriamoci sulla trilogia del buon Sam.
Il secondo capitolo di questo bolide dell’intrattenimento non smentisce, nè ridimensiona, quanto di buono fatto con il primo Spiderman, anzi ne amplifica gli aspetti fantapolitici. Il villain di questa storia, molto simile al Goblin del primo episodio, è Doc Ock, interpretato dal bravo Alfred Molina (ve lo ricordate in “Frida” nei panni di Diego Rivera?), ennesimo presuntuoso uomo d’affari (in realtà è uno scienziato), dalla mentalità vincente e dall’egocentrismo smisurato, il tutto in un mix angosciante di devozione all’unica cosa che conta: il potere. Verrebbe da pensare che uno così, senza senso della misura, della dignità e dell’umiltà, non possa nemmeno lontanamente ambire ad essere un supereroe, ma nell’America di Bush Jr., questi valori non erano del tutto ben chiari, motivo per il quale il genio Sam Raimi, nel 2004, compie un altro passo coraggioso e genuinamente sfrontato, non proponendo una versione Rocky-Rambo di Spiderman, ma una molto più complessa e fragile. In questo secondo capitolo della fortunata saga l’elemento sorpresa cadrà proprio sulla psicanalisi di un personaggio devoto alla rinuncia per scelta di solidarietà, ma allo stesso tempo umano nel senso più completo del termine. Peter Parker in “Spiderman II” è un ragazzo fragile, e persino nevrotico, che si troverà davanti a scelte improponibili per molti, che metteranno difronte questioni personali a questioni etiche molto complesse. Difficile comprendere Freud cosa penserebbe di questo Peter Parker. A noi spettatori ingenui viene solo da pensare che Spiderman, ed il suo alter ego “umano”, inizino a mescolarsi e che uno non possa prescindere dall’altro. Essere Spiderman è un dono o una maledizione? Mary Jane Watson, ancora una volta Kirsten Dunst, come la migliore Lois Lane, o come Rachel Dawes nella saga di Batman di Nolan, rappresenta la via per la felicità ma allo stesso tempo un problema di difficile soluzione. Si può essere felici pur rinunciando a ciò che si è sempre inseguito? E’ questo l’interrogativo alla base di questo secondo capitolo. Inoltre in questo film, che funge da ponte perfetto tra il prologo rappresentato dal primo e l’epilogo del terzo, iniziano a delinearsi i rapporti che ritroveremo in “Spiderman III“, dove Harry Osborn, figlio del defunto Goblin e amico fidatissimo di Peter, interpretato da James Franco, pian piano si distanzierà dal grembo materno (forse sarebbe più corretto dire paterno/fraterno) che aveva caratterizzato la sua natura da bravo ragazzo e amico del cuore (anche se ad onor di cronaca sarà il primo ragazzo di Mary Jane, rubandola di fatto proprio a Peter Parker, ma son dettagli!), per trasformarsi in quella creatura bushana e capitalista con smanie di vendetta. Un buon sequel, sicuramente di livello, in cui però è sin troppo evidente la volontà/necessità di creare un terzo capitolo, motivo per il quale è incompiuto per propria stessa natura, a differenza del primo che lasciava solo spiragli e tanta speranza di rivedere Spiderman al cinema. Qui invece si sa già che lo si vedrà nuovamente.
Nel terzo ed ultimo capitolo, dopo aver gustato con ingordigia un primo ed un secondo abbondanti a livello tematico ed anche e soprattutto a livello estetico, era prevedibile una certa sazietà, colmabile solo ingolosendo lo spettatore. Per questo Sam Raimi, forse in maniera troppo azzardata, decide di buttare tanta carne al fuoco, esasperando i temi del secondo capitolo, come la psicologia fragile e ambigua del protagonista, come il rapporto con Mary Jane e quello con Harry Osborne, ed ovviamente non si sottrae ai fan del fumetto, inserendo ben due nemici storici, ossia Venom e Flint Marko/Uomo sabbia. “Spiderman III” si allontana sostanzialmente dalla componente politica, delineando i due nemici storici come due persone normali, e non come potenti magnati super ricchi. Venom, prima di trasformarsi in orrido e gelatinoso mostro nero, altro non era che Eddie Brock, interpretato da Topher Grace (chissà se lo ricordate come il protagonista di “In good company” di Paul Weitz), ossia un aspirante fotografo che tenta di saltare la normale gavetta imbrogliando, motivo per cui verrà punito e trasformato in mostro dalla società. In questo caso, date le circostanze che portano all’imbroglio, c’è quasi da provare empatia per un bravo ragazzo che stava facendo il proprio lavoro venendo interrotto da uno Spiderman nero (ci arriveremo a breve) che distrugge quanto di buono aveva fatto e che lo spinge a cercare altre vie, seppur non dignitose ed etiche. Eddie Brock non è il prodotto della società americana bushana, ma sembra esserne vittima inconsapevole. Così come Flint Marko, interpretato da Thomas Haden Church (per quelli a cui non dice nulla il nome di questo mastodontico attore, è stato candidato all’Oscar nel 2005 per il ruolo di Jack nel film “Sidaways – In viaggio con Jack“), criminale per esigenza, e per tanta sfiga, che si ritroverà suo malgrado a battersi con Spiderman. Anche lui non proprio un fulgido esempio di capitalismo imperante, ma piuttosto l’ennesima vittima di un sistema malato. A questi si va ad aggiungere, come se non bastasse, New Goblin, ossia quell’Harry Osborn di cui sopra, definitivamente trasformato in cattivo formato odio puro. Ed in tutto questo polverone, che dovrebbe essere il preludio ad un finale epico e straordinario, la parte più interessante è proprio quella legata a Peter Parker ed alla sua psicologia, secondo i canoni younghiani, che lo trasformerà nell’ennesimo mostro da sconfiggere: lo spiderman nero. Insomma Raimi sembra dirci che ognuno di noi ha un lato oscuro, ma che sta alle scelte che facciamo portarci sulla strada giusta o su quella sbagliata. In questo terzo capitolo, non si perde affatto l’ironia (basti pensare ad un Tobey Maguire ballerino), nonostante un’atmosfera molto più cupa e dark, e non si perde affatto in spettacolarità. Tuttavia si ha come l’impressione che ci siano troppe cose da dire, troppi argomenti che andrebbero affrontati meglio (il personaggio di Venom e di Flint Marko meriterebbero molto più spazio ed uno studio più introspettivo), ma troppo poco tempo, e si finisce per vanificare in parte tutto quello che di buono c’era, specie con un finale dannatamente prevedibile che accontenta tutti gli amanti dell’happy end, per via di un buonismo e sentimentalismo davvero troppo esagerato.
In definitiva, la trilogia di Raimi si distacca dalle tante pellicole sui supereroi, per la carica ironica e politica presente, per la capacità di sorprendere (eccezion fatta per il terzo capitolo), per la volontà di raccontare un mondo migliore attraverso le gesta di uno Spiderman dolente, costretto a battersi con l’amico del cuore, costretto a rinunciare all’amore della vita, costretto a difendersi dagli attacchi della mente dell’adolescente che in realtà è. La trilogia si eleva così a galassia fantapolitca e fiabesca, a impero dell’umanità cinica e di quella buona, e Sam Raimi ci insegna che si possono fare prodotti mainstream, devoti quindi all’intrattenimento e al Dio-botteghino, pur catalizzando arte e mestiere in una trilogia destinata a rimanere per sempre nella storia.
Voto 7/10