Il tennis può avere sugli spettatori un effetto di attrazione fatale o di rifiuto totale o, peggio, di indifferenza. Quella pallina che va avanti e indietro sulla rete mentre i due tennisti a bordo campo (ma non sempre) vanno da destra a sinistra cercando di mettere la palla nell’angolo giusto in cui l’altro non riuscirà a prenderla può avere senz’altro qualcosa di snervante. Non solo per chi gioca, per chi arbitra e per chi assiste, ma anche per chi ne fa la telecronaca. Guido Oddo, che ai miei tempi era il principe dei telecronisti del tennis, amava ripetere una battuta: “Una partita di calcio dura novanta minuti, noi possiamo stare qui anche cinque ore”. La partita di tennis si sa quando inizia ma non quando finisce. In teoria potrebbe andare avanti anche all’infinito. Se nessuno dei due giocatori sbaglia si può andare avanti senza fine. Il gioco in questa sua infinità esprime la sua sovranità, mentre i giocatori ne sono gli interpreti. “Il tennis è il gioco del sovrano, dunque il sovrano dei giochi”.
La filosofia sempre più spesso lascia le aule delle lezioni per provare a fare lezione in campo o, più naturalmente, per mettersi in gioco. L’ho fatto in prima persona con il calcio mostrando come il calcio non è solo, come vuole J.P. Sartre, una metafora della vita ma una vero modello cognitivo che basandosi sul pluralismo e non sul monismo mette in scacco la volontà di potenza e la volontà di verità che è insita nella storia della filosofia a tal punto da potersi trasformare in una ragione e in una volontà totalitarie. Il motivo di questo felice incontro tra pensiero e calcio è nel gioco che aiuta a ridefinire l’idea di essere non mettendola (completamente) a disposizione della volontà umana. Ecco perché la filosofia – che per altro fin dal nome si porta dietro l’idea di gioco - si può praticare sia in un campo di calcio, sia in un campo da tennis o in un altro qualunque campo da gioco in cui l’uomo fa esperienza delle sue possibilità e dei suoi limiti. Carlo Magnani, che è ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico alla “Carlo Bo” di Urbino, ha scelto il campo da tennis provando a sostenere una analogia tra la condizione del soggetto moderno e la tecnica del tennis. In campo, proprio come nel calcio, ci sono tanto i giocatori quanto i filosofi: Cartesio, Hobbes, Spinoza ma anche Laver, Jimbo e lui, Biorn Borg. Per chi ha la mia età, Borg è qualcosa di più di un giocatore di tennis. Sempre che – s’intende - quella pallina che va avanti e indietro sulla rete del campo centrale di Wimbledon non vi sia indifferente.
Non è mia intenzione spiegare il libro di Magnani che s’intitola in modo chiaro Filosofia del tennis, è edito da Mimesis e ha un sottotitolo che è la parafrasi di un famoso titolo di Bobbio: profilo ideologico del tennis moderno. Questo lo potete fare personalmente. E’ mia intenzione, invece, soffermarmi su alcune pagine centrali della lunga partita di tennis proposta dal filosofo del diritto e del rovescio. Sono le pagine legate ai filosofi della libertà e della racchetta: Borg, Nastase e Panatta. Il primo a mettere la palla in gioco è lo svedese. Quando si parla di Borg è quasi impossibile non tirare in ballo anche McEnroe, cosa che avviene anche nel libro di Magnani, ma qui ora facciamo un’eccezione alla regola. Soffermiamoci sulla libertà di Borg che è un particolare tipo di libertà che è spiccatamente filosofica e morale e coincide con la necessità perché ha al suo fondo la passione per la conoscenza e dunque la verità. McEnroe è senz’altro un genio. Ricordate? Servizio e discesa a rete per concludere la giocata sottorete. Ma in questa bellezza del gioco di McEnroe c’è già troppa emotività, troppa passione, troppa immaginazione. Non sempre il colpo riesce. “Non è il genio, non è il semplice desiderio a costruire la realtà – dice Magnani -: cioè non basta l’atto d’imperio della volontà a creare un efficace rapporto con le cose. L’immaginazione rischia semmai di essere nemica della libertà umana nella misura in cui allontana dalla verace comprensione; ed anche le emozioni e le passioni hanno bisogno di essere lette dentro un’etica razionale. Borg pone il soggetto come mai prima nella storia del tennis, rivoluziona le tecniche di esecuzione dei colpi fondamentali, il modo di arrivare sulla palla, tutto all’insegna della rigorosa applicazione materialistica, dello studio, verrebbe da dire, delle possibilità scientifiche date allo sport della racchetta. C’è poca “soggettività” nella sua condotta sul campo, manca la prorompenza di Connors, la personalità brillante di Laver, l’istrionismo di Nastase. Eppure il fascino che emana è profondo, tanto da conquistare come nessuno, prima e dopo di lui, la cattedrale del tennis Wimbledon”. E’ vero e lo si può dire con una formula di sintesi e chiarezza: Borg è il tennis. La sua capacità di fare gioco e di diventare esso stesso gioco è esemplare perché razionale, geometrica, identica a se stessa. La sua libertà è l’adesione o la adeguazione della necessità. Ma se è il tennis ne è anche la sua fine o il suo hegeliano compimento. Per questo Borg uscì presto di scena. Con lui tutta la razionalità del tennis si realizzò e tutta la realtà del tennis si razionalizzò.
Ilie Nastase è un’altra cosa. Dopo i tre grandi rumeni Mircea Eliade, Eugéne Ionesco ed Emil Cioran, proprio Nastase ha fornito “il maggior contributo alla diffusione della cultura del suo paese”. Il suo tennis era brillante e incredibilmente vario e proprio Borg affermava che ogni palla del rumeno giungeva differente dalla precedente. Nastase non era prevedibile. Il suo modello di libertà non rientra nel razionalismo monista di Borg/Spinoza ma in quel pluralismo che mette proprio in questione i presupposti stessi della filosofia tennistica dello svedese. Quando Nastase era in campo, nota giustamente Carlo Magnani, non erano solo le palline a sottostare a variazioni di taglio e traiettoria, ma l’intero macht a subire diverse perturbazioni. Era più forte di lui, come ammise più volte: quando il pubblico lo ammirava il tennis finiva per diventare il pretesto per una esibizione totale, forse anche narcisistica, della sua personalità. Ogni occasione era buona per parlare con gli spettatori o contestare l’arbitro; per mettersi in testa, al Roland Garros, il cappello del giudice di linea prima di servire; per disputare un incontro, vincendolo, coi soli calzini e senza scarpe; o per prendere un ombrellino dagli spalti di Wimbledon e saltellare sul campo provando a giocare”. Nel 1976 Nastase perse nella finale di Wimbledon proprio contro Borg: il pluralista perse contro il monista, lo storicista fu sconfitto dal razionalista e per contestare l’arbitro rimase sul servizio a sinistra mentre Borg serviva a destra. I due modelli, del resto, sono l’uno la critica – non dirò il rovescio - dell’altro e, forse, proprio questa loro reciproca critica ce li rende entrambi indispensabili, tanto nel campo da gioco di Wimbledon quanto nel campo della vita.
Adriano Panatta? Famoso per il colpo che ha un nome di donna: veronica. Ma, certo, non è paragonabile al monista o al pluralista. Tuttavia, anche Adriano Panatta ha il suo posto nella storia del tennis perché, dopotutto, anche il tennis ha una sua dimensione storica. Forse, soprattutto il tennis: “Dal punto di vista tecnico Adriano era un giocatore abbastanza tradizionale, aveva dei colpi che portava in maniera classica: un ottimo servizio, un diritto potente giocato con una impugnatura aperta, come usava allora; mentre il rovescio era meno sicuro specie in difesa e nei giorni poco felici, anche se lo slice di attacco era uno dei suoi punti di forza. Il carattere innovativo di Panatta non sta tanto nella tecnica in sé, quanto nell’insieme di contesto storico e di strategia di gioco in cui il tennista romano ha saputo esprimere il suo tennis, conferendogli grande originalità”. Proprio la libertà è il modo in cui il tennista italiano, che si affermò negli anni Settanta, ha sempre interpretato il suo gioco: “Quando sconfisse Pietrangeli, ai Campionati italiani assoluti del 1970 a Bologna, in una partita di cinque set che tutti ricordano, non si trattò di una vittoria meramente tecnica. Attraverso il trionfo del figlio del custode del Circolo Parioli, il tennis italiano semplicemente si democratizzò e trovò così modo di stare dentro i tempi nuovi”.
Il tennista italiano non ha vinto molto ma le sue vittorie hanno qualcosa di significativo per la storia e per il tennis. Il vero anti-Borg – almeno questa è la tesi sostenuta da Magnani - non è McEnroe ma Panatta. Le vittorie dell’italiano sullo svedese sono sei. Non poche. Due di queste sono parigine e proprio queste due vittorie di Panatta sulla terra battuta del Roland Garros hanno impedito a Borg di vincere otto volte su otto a Parigi. L’italiano è la migliore incarnazione della filosofia di Bruno nel tennis. Il Nolano non è per la necessità sulla libertà ma, prima con la vita che con lo stesso pensiero, è per la libertà sulla necessità. Panatta è il Bruno del tennis: “Era un attaccante da terra rossa nel momento in cui il tennis si stava specializzando e i giocatori di rete iniziavano ad essere confinati sui terreni veloci. Lui no, lui giocava sulla terra all’attacco, con i diritti potenti e rovesci tagliati lungo linea da togliere il fiato, mettendo volee in ogni dove del campo, tuffandosi come un portiere di calcio per ribattere passanti angolati e insidiosi”. Ecco, con questo accenno al calcio, mi pare la conclusione migliore per il pezzo. La differenza tra il Borg/Spinoza e il Panatta/Bruno potrebbe andare avanti all’infinito, proprio come una partita di tennis che non si decide a finire, mentre Guido Oddo si lamenta della lunghezza estenuante dell’incontro e ironizza sui comodi novanta minuti della partita di calcio. Proprio come l’eterna partita della filosofia che si riapre proprio quando sembra ormai volgere alla fine. La differenza tra Borg/Spinoza – la libertà come necessità - e Panatta/Bruno – la libertà come possibilità - è il motore interno della vita del pensiero e dell’azione nella quale siamo immersi fin dalla nostra nascita: è un gioco che un po’ esiste senza di noi e un po’ ha bisogno di noi per essere.
tratto da Liberal del 25 aprile 2012