Un film che per i suoi fan diventa anche una sorta di “tributo” a Philip Seymour-Hoffman, l’eccezionale attore scomparso qualche mese fa e che lascia un vuoto enorme per la sua sensibilità e capacità di interpretare i ruoli più complicati. Come quello di Gunther Bachmann, direttore di una squadra di spionaggio tedesca di stanza ad Amburgo, dove si svolge la vicenda. Un ragazzo ceceno viene avvistato in città e la sua presenza viene considerata pericolosa per eventuali rischi di natura terroristica. Allo stesso tempo viene monitorata l’attività benefica di un uomo molto in vista nella comunità islamica internazionale, Abdullah, e le due vicende finiscono inevitabilmente per intrecciarsi, con polizia tedesca, Cia e la stessa cellula diretta da Bachmann a farsi la “guerra” fra giochi di alleanze e finti abboccamenti. Con gli Stati Uniti – tanto per cambiare – a fare, come sempre, da “burattinai” e l’Europa (in questo caso la Germania) a tentare di ribellarsi al ruolo di semplice pedina. In tutto questo la vera vittima appare essere, fra gli altri, soprattutto la bella e brava Rachel McAdams che qui interpreta un giovane e ribelle avvocato dedito alla difesa dei diritti civili dei rifugiati e ingenuamente intenzionato a dare una mano al misterioso ragazzo ceceno, contro tutto e tutti. Non passa inosservata nemmeno la presenza della rediviva Robin Wrigh, mentre un gradino sotto appare un Willem Defoe forse fuori contesto, nel ruolo di un banchiere risucchiato in una vicenda per certi aspetti più grande di lui.
Il finale, ovviamente, riserva le doverose sorprese del genere, almeno per chi non ha letto l’opera di LeCarrè, ma è il registro scelto dal regista ad interessare, con personaggi tagliati con squarci di luce, qui e là, dove spesso basta uno sguardo, un sorriso, una mano appoggiata su una spalla a spiegarne la complessità psicologica. La mancanza di azione e l’alternanza di ritmo, che appare in qualche momento carente, sono funzionali alle intenzioni di creare un film che parli dello spionaggio puro, quello meno muscolare, ma più sottile, come peraltro spesso accade proprio nei libri di LeCarrè e che la stessa “Talpa” aveva evidenziato in tutta la sua forza. I personaggi si muovono in una metropoli tedesca ambigua, fra grattacieli avveniristici, parchi cittadini, quartieri di immigrati e il porto, scenario silenzioso sullo sfondo ma non per questo meno importante, perchè capace di alimentare con le sue luci e i suoi riflessi la solitudine in cui si muovono i personaggi, a cominciare proprio da Bachmann, inquieto e determinato.
Il film, sia pur nella sua voluta lentezza, vale il prezzo del biglietto. Spiega molto bene l’angoscia e la paura emersi dall’11 settembre 2001 in poi in tutto l’Occidente. Anche di fronte a elementi che evidentemente non sono ciò che all’inizio si pensa che siano. Come a voler andare dritti per la propria strada a prescindere, da tutto e tutti. In nome della sicurezza. In nome della verità. Che mai come ora è relegata in realtà a puro pretesto.
Il racconto emerge in tutta la sua forza e in questo senso va dato merito al regista di essere riuscito ad esprimere al meglio le intenzioni di LeCarrè di descrivere la vera essenza dello spionaggio, non certo fatto di sangue e azione, ma soprattutto di attese, accordi, mediazioni e doppi giochi. E in ogni caso non si possono guardare con un po’ di malinconia quegli ultimi fotogrammi del film, che sappiamo essere gli ultimi dell’attore americano. Se questo doveva essere il suo canto del cigno, la sua uscita di scena…beh, non c’è che dire, si tratta davvero di un’uscita di classe, come d’altronde potevamo attenderci da un attore come lui.
Ernesto Kieffer
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