#Spioncino: Trenini elettrici sotto un ciliegio

Creato il 22 dicembre 2012 da Intervistato @intervistato
Cafè Lumière di H. Hsiao-Hsien
Ozu era un regista che innanzitutto con le sue immagini basse e stabili catturava, come farfalle, le inezie che pullulano e operano nella vita che fluisce e che grazie a esse piano piano si fa largo verso il suo centro o enigma.
Dava l’impressione di preferire gli spazi chiusi, le stanze delle case e degli uffici, forse perché gli “interni” tendono alla gestazione del rito, alla formazione di comportamenti come cristalli, di gesti come segnaletiche di fumo, di ritmi come stra...
tagemmi. Ma è un’impressione basata sulla quantità.
Poi infatti passava (spesso con il suo solo sguardo, mantenendo i personaggi lì dove stavano) alle piccole strade della città ornate di insegne di negozi e scale improvvise oppure alle linee mosse e alle prospettive atletiche dell’aria aperta. Dove quel reticolo di “intraazioni” che aveva nidificato tra le mura si irradia e si rende sottilmente trasparente. Né escludeva, il narratore Ozu, del resto, contro quella campana di vetro, in quell’ordinamento di fatti bene imballati, l’avvento di episodi traumatici e decisivi; ma anche in questo caso la m.d.p., con tempismo, andava a cercare fuori, anche se solo per un breve momento, una esperienza visiva sintetica dell’urto o del lutto prodottosi.
Ozu applica cioè al cinema, tra i primi e come pochi dopo di lui, la dottrina del correlativo oggettivo. Che poi non è altro che il balenio appartato e schivante di un complesso di emozioni localizzato nei dintorni; il riflesso di lampione che si versa sull’asfalto dal marciapiede di uno stato d’animo. Un pezzo degli scacchi (per esempio la torre, che incapsula sotto il velo della sua forma di corona apocrifa la condizione cartesiana delle sue circostanze). In fondo, una esauriente, fulminea confessione indiretta.
Ozu è anche un artefice di treni. Che proliferano nei suoi film come orologi daliniani, quasi immateriali nel loro continuo misautenticare lo spazio o sparigliare le carte. Supercorrelativi oggettivi. Nervature di foglia della metropoli e sommario destino delle loro proprie destinazioni. Come se si inquadrassero, in uno spettacolo di burattini, solo i fili mossi dal burattinai e niente altro.
Qualche anno fa un regista cinese, Hou Hsiao-Hsien (nome triadico con cui quasi si aggiudica la H, come Kafka la K o il calciatore inglese che segna una tripletta il pallone), venne incaricato di realizzare un film per celebrare l’anniversario della morte di Ozu. Il mandato era di farlo “alla maniera di Ozu”. Il regista cinese si reca in Giappone (ed è divertente immaginarlo incamminarsi con l’attrezzatura sulle spalle e attraversare il confine a piedi, come Herzog o un personaggio di Herzog).
Il film che è sgorgato da questa pericolosa sorgente mi emozionò tantissimo, e io ancora non conoscevo le opere di Ozu. Sedevo in quinta fila del Palabiennale di Venezia, circa a mezzanotte, dopo la visione di quattro film. Non avevo mai visto cinque film in un giorno. Ero stanco e avevo molto sonno. Ero pronto a una battaglia (kubrikiana) per tenere gli occhi “funzionanti”, convinto in effetti che mi sarei presto arreso e addio al muscolare record. Non so perché (non credo ci sia una ragione logica, l’apprezzamento delle prime scene del film non basta, il sonno è sonno, è stata solo una fortuna), smisi di soffrire la stanchezza e riuscii a guardare tutto il film come se mi fossi alzato da qualche minuto al termine di una notte di sonno lunga e serena.
La storia è quella di una ragazza che fa cose come queste: occuparsi della pulizia della casa tenendo sempre una finestra aperta e spesso affacciandosi e prendendo luce come una pianta; entrare in un caffè e mettersi a sfogliare in un angolo del locale un libro illustrato che narra di rapimenti e nordici fantasmi e che un amico le ha procurato; restare in piedi accanto al suo amico mentre lui escogita un videogioco tutto iridescente di sinuosissimi treni; scattare qualche fotografia alle facciate dei palazzi che la incuriosiscono (la m.d.p. si sposta lenta da lei alla facciata, quasi lei potesse sfiorare con le dita quelle facciate, quasi che scattare una fotografia significhi tendere la mano, non fare rumore e rimboccare le coperte agli oggetti e alle forme fotografate).
Cose che sono appena appena qualcosa, se viste da noi spettatori con postura ufficiale e frontale. Ma cose che sprigionano miriadi di effetti (molecolari, sopraffini) se viste con un altro umore o ingegno. La storia di una ragazza, che vive in Giappone, che ha un corpo e ha una sua andatura per le vie della città (un suo modo di entrare in una stanza e di lasciarla), e che durante la sua vacanza dal lavoro fa cose di silenzio e pazienza e poi a conclusione della giornata se ne va a letto. Come un trenino giocattolo che si ripone nella sua confezione dopo le ore così soddisfacenti passate a guardare montarlo vagone dopo vagone (io ricordo la inutile lettura ad alta voce che facevo delle istruzioni a chi lo montava per me – per “partecipare”).
Avrei solo in seguito amato i film di Ozu ma avevo appena assistito con incanto a questo prelibato fenomeno di un regista cinese di oggi che ricordava e sognava un principe del cinema giapponese di ieri attraverso il corpo e il volto distesi e finemente illuminati di una sensibile ragazza giapponese.
Francesco Romeo | #spioncino


Electric trains under a cherry tree
Ozu was a director that first of all with his low and stabile images captured, as butterflies, the unimportant things that fill and operate in the life that flows and that thanks to them little by little makes its way towards its center or enigma.
He gave the impression of preferring closed spaces, the rooms of homes and offices, maybe because the "interiors" tend to the gestation of the ritual, the formation of behaviors like crystals, of signs like smoke signs, rithms like stratagems. But it is an impression based on quantity.
Then infact he went (often with just the look, maintaining the characters where they were) to the small streets of the city, ornated by store signs and sudden stairs or wavy lines and athletic perspectives of open air. Nor did he exclude, Ozu the narrator, by the way, against that bell of glass, in the ordinament of well packaged facts, the coming of traumatic or decisive episodes; but even in this case the camera went to search outside, even if only for a moment, a visual experience that could synthetize the hit or the mourning that just happened.
Ozu applies to the cinema, among the first and a few after him, the doctrine of objective correlative. That is nothing else but the solitary glimpse of a complex of emotions localized in the surroundings; the reflex of a light on the asphalt from the sidewalk of a sensation. A piece of chess (for example the tower, that incapsulates under the veil of its crown the cartesian condition of its circumstances). In the end a sudden indirect confession.
Ozu è anche un artefice di treni. Che proliferano nei suoi film come orologi daliniani, quasi immateriali nel loro continuo misautenticare lo spazio o sparigliare le carte. Supercorrelativi oggettivi. Nervature di foglia della metropoli e sommario destino delle loro proprie destinazioni. Come se si inquadrassero, in uno spettacolo di burattini, solo i fili mossi dal burattinai e niente altro.
Qualche anno fa un regista cinese, Hou Htsiao Htsien (nome triadico con cui quasi si aggiudica la H, come Kafka la K o il calciatore inglese che segna una tripletta il pallone), venne incaricato di realizzare un film per celebrare l’anniversario della morte di Ozu. Il mandato era di farlo “alla maniera di Ozu”. Il regista cinese si reca in Giappone (ed è divertente immaginarlo incamminarsi con l’attrezzatura sulle spalle e attraversare il confine a piedi, come Herzog o un personaggio di Herzog).
Il film che è sgorgato da questa pericolosa sorgente mi emozionò tantissimo, e io ancora non conoscevo le opere di Ozu. Sedevo in quinta fila del Palabiennale di Venezia, circa a mezzanotte, dopo la visione di quattro film. Non avevo mai visto cinque film in un giorno. Ero stanco e avevo molto sonno. Ero pronto a una battaglia (kubrikiana) per tenere gli occhi “funzionanti”, convinto in effetti che mi sarei presto arreso e addio al muscolare record. Non so perché (non credo ci sia una ragione logica, l’apprezzamento delle prime scene del film non basta, il sonno è sonno, è stata solo una fortuna), smisi di soffrire la stanchezza e riuscii a guardare tutto il film come se mi fossi alzato da qualche minuto al termine di una notte di sonno lunga e serena.
La storia è quella di una ragazza che fa cose come queste: occuparsi della pulizia della casa tenendo sempre una finestra aperta e spesso affacciandosi e prendendo luce come una pianta; entrare in un caffè e mettersi a sfogliare in un angolo del locale un libro illustrato che narra di rapimenti e nordici fantasmi e che un amico le ha procurato; restare in piedi accanto al suo amico mentre lui escogita un videogioco tutto iridescente di sinuosissimi treni; scattare qualche fotografia alle facciate dei palazzi che la incuriosiscono (la m.d.p. si sposta lenta da lei alla facciata, quasi lei potesse sfiorare con le dita quelle facciate, quasi che scattare una fotografia significhi tendere la mano, non fare rumore e rimboccare le coperte agli oggetti e alle forme fotografate).
Cose che sono appena appena qualcosa, se viste da noi spettatori con postura ufficiale e frontale. Ma cose che sprigionano miriadi di effetti (molecolari, sopraffini) se viste con un altro umore o ingegno. La storia di una ragazza, che vive in Giappone, che ha un corpo e ha una sua andatura per le vie della città (un suo modo di entrare in una stanza e di lasciarla), e che durante la sua vacanza dal lavoro fa cose di silenzio e pazienza e poi a conclusione della giornata se ne va a letto. Come un trenino giocattolo che si ripone nella sua confezione dopo le ore così soddisfacenti passate a guardare montarlo vagone dopo vagone (io ricordo la inutile lettura ad alta voce che facevo delle istruzioni a chi lo montava per me – per “partecipare”).
Avrei solo in seguito amato i film di Ozu ma avevo appena assistito con incanto a questo prelibato fenomeno di un regista cinese di oggi che ricordava e sognava un principe del cinema giapponese di ieri attraverso il corpo e il volto distesi e finemente illuminati di una sensibile ragazza giapponese.
Francesco Romeo | #spioncino

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