Magazine Cinema
regia di Vincenzo Natali
“Splice” avrebbe potuto essere ed invece non è. Invischiato in un
cinema che si ripete senza alcuna variazione, il film di Vincenzo
Natali aveva le potenzialità per interrompere la suddetta clonazione:
e questo nonostante la scelta di una premessa scientifica, quella
della manipolazione genetica, reclamizzata a dismisura ma ormai
superata sia in termini di frontiera scientifica, che come punto di
partenza sul quale fondare il Topos di un cinema visionario e
futuribile.
Non solo il legame tra i demiurghi e la loro creatura, in
questo caso l’essere antropomorfo (Dren, punto d’incontro tra le due
specie) che i due scienziati hanno realizzato contravvenendo alle
regole della Corporation, ma anche le possibilità di un individualità
esplorata, e come oggetto cinematografico, capace di innescare, per le
sue caratteristiche di antagonismo e diversità, il dinamismo di un
prodotto destinato a sollecitare l’adrenalina dello spettatore, e come
soggetto sessuale, in grado di armonizzare istinti e tendenze che
appartengono , queste si, ad una modernità troppo avanti per la
nostra società: ne uomo, ne donna, ed al limite di un animalità a
stento contenuta da tentativi pedagogici, Dren va oltre lo stereotipo
del “villan” perché sintetizza l’aspirazione ad un unità di opposti
distanti dalla morale dominante.
Così dopo averci mostrato un
“accoppiamento del terzo tipo” che non si vedeva sullo schermo dai
tempi di Borowczyk, è proprio la morale a favorire uno sviluppo della
storia che sul più bello abbandona l’ambiguità fin allora professata
per un colpo di spugna sbrigativo e vittoriano, quasi una punizione
nei confronti dello spettatore e dei contendenti sporcati da una
visione così ardita. Insomma morte al sesso ed a chi lo pratica.
Natali come al solito riesce a dare il meglio di sé nella concezione
degli ambienti, anche qui ridotti al minimo - il film si svolge quasi
interamente tra il laboratorio scientifico e la casa/prigione dove
Dren viene reclusa - e determinanti nel rendere una claustrofobia
strettamente connessa ad i limiti di un budget da B movie.
Un po’ meno
quando si tratta di dare seguito alle implicazioni connesse con il
sentimento di attrazione/repulsione che guida le azioni dei tre
protagonisti. E se l’interesse principale risiede in un personaggio
che, al di là delle sembianze dis-umane, rimanda ad altre icone di
cinema mutaforme ( Jeepers Creepers ed Alien), così non si può dire
per il resto della ciurma, completamente ininfluente dal punto di
vista estetico e drammaturgico: sotto gli effetti della cura Dario
Argento (l’attore aveva appena girato l’inedito “Giallo”) e sempre più
deciso ad abbandonare il cinema d’autore, Adrien Brody continua a
passare da un film all’altro con la medesima espressione mentre Sarah
Polley, più regista che attrice, appare sciatta e con poca voglia di
recitare.
Resa incondizionata allo strapotere del cinema Avatar o
gioco al risparmio per aumentare i profitti di un prodotto sempre più
costoso?
Il dibattito rimane aperto.
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