Mi hai portato dei biscotti. Sono senza burro senza zucchero senza uova senza conservanti senza coloranti senza grassi vegetali idrogenati, hai detto. Ti ho guardato. Hai abbassato lo sguardo. Non ti faranno ingrassare, hai detto, la testa bassa e un mezzo sorriso. Ti ho mai detto che sono a dieta? Hai voglia di fare due passi? mi domandi, tendendomi la mano. Mi alzo dalla poltrona, ti resto davanti, con la mia stupida vestaglia e le mie stupide ciabatte, e tu il tuo bel cappotto scuro e le tue scarpe lucide e la sciarpa di cachemire che di sicuro ti ha regalato lei per Natale. Eccomi, la mia vestaglia è macchiata, forse di olio o di burro o di qualche tipo di grasso vegetale idrogenato o no, non so cosa usano qui, credo che non gliene fotta un cazzo se ingrassiamo o no. La mia faccia dev’essere bianca, penso, e così nuda, con i capelli tirati all’indietro. Ti guardo negli occhi neri, con i miei blu. Mi abbracci, come se fosse inevitabile. Un abbraccio senza peso senza calore senza umidità né odore, un abbraccio che non mi farà ingrassare di un grammo. Poi mi prendi sotto braccio, quasi si direbbe che persino tu ti vergogni, di questo abbraccio indecentemente a buon mercato, di questo abbraccio da hard discount. Ci spostiamo fuori della camera, io apposta strascino le pantofole, voglio che facciano uno sconcio splat-splat sul pavimento di linoleum verde lichene, ma tu non ti arrabbi, non mi guardi storto. Raggiungiamo l’uscita. Camminiamo per un po’, in silenzio, fuori, io con gli occhi uno mezzo aperto uno mezzo chiuso. Mi tieni la mano sotto il gomito, attento, ben attento a non sfiorarle nemmeno, le bende che salgono dai polsi. Non sanguino più, ti dico. Ti ritrai, come se ti avessi sputato in pieno viso. Scuoti la testa, come a voler gettare via le mie parole. O me. Vuoi un biscotto? mi chiedi, balbettando. Trafitto. Ne prendo uno, per salvarti dalla furia della tua pena. Lo mordo, lo mastico, lo impasto di saliva, saliva ancora saliva per dargli una consistenza semi liquida che andrà giù. Ma non va. Si ferma lì, incollato sul palato, lì, mezzo inghittito. Ora muoio soffocata, penso. Mi viene da ridere, ma invece di ridere, chissà perché, piango. La poltiglia senza burro senza zucchero senza uova né grassi vegetali idrogenati mi si rovescia fuori delle labbra, gocciola densa sulla vestaglia. Ti chini, costernato, sui miei singhiozzi, ti frughi nelle tasche, mi pulisci il mento con il tuo fazzoletto. Non importa, non importa dici. Piango, piango ancora e allora mi stringi, contro il tuo cappotto, mi stringi e le mie narici trovano quello che una volta era il tuo profumo, incastrato tra le fibre, assieme all’odore di involtino primavera della rosticceria cinese di via Battisti dove ci piaceva andare, e sento il battito accelerato del tuo cuore, dentro le ossa, e sento l’odore del tuo respiro che mi scalda la guancia. Non importa dici, non fare così, non dovevo venire, scusami, scusami per favore, non potevo, ma non dovevo, lo so, è colpa mia. Le lacrime si arrestano, forse grazie a quelle parole, o forse per quell’odore di paura e dolore che ti porti dentro, sotto il cappotto, e magari nemmeno lo sai, che sei morto un po’ anche tu, assieme a me, che hai perso ogni sapore. Fanno schifo quei biscotti, dico. Lo so, dici, scusa.
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