Non c’è niente di più spontaneo della finzione. Prendete l’emblema stesso della spontaneità, il bambino: il suo percorso di formazione e di ricerca identitaria si svolge tutto nell’immedesimazione, nell’imitazione, con tale convinzione da far apparire credibilmente vera la finzione. In psicologia, si parla di gioco simbolico per la fase che segue il primo periodo sensomotorio della vita del bambino. Partendo dal gioco simbolico, caratterizzato dall’attribuire valore d’uso quotidiano ad oggetti ed azioni simboliche, si arriva, sul finire dell’età prescolare al gioco sociodrammatico, nel quale i bambini interagiscono tra di loro, creando spontaneamente un sistema normativo atto a regolare le loro interazioni rappresentative.
In età adolescenziale e adulta, il gioco perde gradualmente (ma mai del tutto) la sua funzione formativa alla vita, per assumere un carattere predominante di esercitazione psicofisica e sociale. Quello che non cambia è la spontanea serietà con cui ci si approccia alla finzione del gioco, fino ad esserne giocati, fondendosi col gioco e, in questo modo, ritrovando la propria più intima autenticità.
In definitiva, nel gioco l’essere umano compie un percorso a ritroso: da bambino acquista le sovrastrutture necessarie a una normale vita sociale futura; da adulto, trova in esso la sospensione dal quotidiano e si spoglia temporaneamente proprio di quelle sovrastrutture che si era creato da bambino attraverso il gioco. Perchè tutto ciò funzioni, è necessario che il giocatore si abbandoni completamente alla fede innata nella verità della finzione del gioco.