di Rina Brundu. Era la festa dellle feste a Villanova e in Ogliastra. Quando ero piccola io cadeva il 14 del mese di giugno. Il 13 era Sant’Antonio. Era anche una fiera. In passato, mi raccontavano, is mannos, durava circa una settimana, i pellegrini arrivavano da ogni parte della Sardegna, a piedi, a cavallo, coi carri. Credo che non sia sogno l’immagine che recupero dalla memoria, un mio ricordo di quando, bambina di quattro o cinque anni, mi affacciai al cancello di ferro battuto del cortile della nonna, e sul grande stradone che tagliava in due il villaggio, vidi una folla di persone che arrivava, vestita con costumi colorati, portando cesti di fiori, di oggetti artigianali lavorati di fresco, chiacchierando, ridendo, sudando, già accaldata in quelle giornate di inizio estate che si riempivano fin dall’alba di un sole glorioso, che incendiava il cielo e ossigenava l’aria. Quindi mi vedo nascosta dietro una porta di legno. Spiavo il vagabondo che aveva bussato in casa della nonna. Mi intimoriva. Lei venne fuori col solito passo deciso, agghindata dell’usata camicia bianca e della lunga gonna marrone, gli portò del formaggio come già sapesse, come non ci fosse stato bisgogno di chiedere. Lui salutò e se ne andò. A ripensarci quei poveri, spesso vecchi, spesso infermi, li scorgevo, in quella stessa giornata, anche sul sagrato della chiesa, poi nel tempo sparirono e non ho mai capito se fosse perché non c’erano più infermi, perché qualcuno se ne fosse preso cura o perché altri li avevano nascosti.
Le bandiere colorate con cui don Vinante decorava l’intero piazzale di chiesa, le canzoni che metteva su, la musica della banda che chiamava per accompagnare la processione sono invece il tratto distinto che accompagnava l’essenza della mia personale festa di San Basilio. E che l’accompagna tuttora, nel ricordo. Anche il costume che, insieme alle mie compagne, vestivo per fare parte di quella cerimonia. Si trattava di una camicia bianca e di una lunga gonna rossa che faceva pendant con un fazzoletto pure quello vermiglio. Non aveva nulla della leggiadria e della ricchezza dei costumi delle altre zone della Sardegna, della vicina Desulo per esempio, questo perché Villanova non aveva una sua tradizione in quel senso e don Vinante il modello se l’era inventato. Ma a noi piaceva e non era raro che il turista sfaticato, armato di pesanti macchine fotografiche post-belliche e fabbricate in Germania, ci fermasse per strada per fotografarci. Il pomeriggio era lungo. Fatto di infinite passeggiate avanti e indietro lungo la strada principale, affollata di gente e di bancarelle che vendevano giocattoli colorati, torrone, specialità sarde, candele grasse ed ogni cosa che pareva bella sotto il sole. Il profumo della carne di pecora arrostita per il pranzo nei cortili e nelle campagne intorno al villaggio spandeva per ore, si confondeva con l’umore sudato, inebriato di vino e si appiccicava sulla pelle per poi sparire d’incanto la sera tardi, liberare l’aria. Nella notte silente si sentivano soltanto i canti dei grilli, l’abbaiare di qualche cane e l’occasionale schiamazzo fastidioso procurato da un’altra marmitta di motoretta che aveva rassegnato l’anima.
A rifletterci bene, la festa di San Basilio era soprattutto memoria. Memoria che si raccontava e memoria che si creava. Memoria che riempiva le mille nottate di primavera e di mezza estate quando ci si radunava in questo o quel vicinato a raccontare storie. Lo zio al suo solito scuoteva il capo: quando era giovane lui la festa era tutt’altra cosa. Nel villaggio, diceva, arrivavano uomini balenti a cavallo, da Desulo, finanche dall’arcinemica Fonni e dagli altri villaggi vicini e discutevano di cose da uomini, di bestie da vendere, di bestie da comprare, di affari da fare e di mille altre faccende. Contos de tenne in contu, insomma. Quella dello zio era intesa come una critica severa, al decadimento dei tempi, alla gioventù oziosa, alle tradizioni che si perdevano. La nonna invece preferiva salvare dalla sua memoria formidabile ritratti di donne e di uomini, di fatti e di fatterelli, più o meno dignificanti che negli anni avevano colorato quelle giornate di festa e le avevano rese a loro modo indimenticabili. Mi viene da pensare adesso che tale memoria, era pesante, nasceva ricca di suo e generava sostanza, giustificava le esistenze dimesse di infinite vite ai piedi della Grande Montagna e ad un tempo le rendeva giganti. Senza quei loro giorni, quegli infiniti momenti, gli innumerevoli racconti che per buon cuore mi hanno regalato quegli uomini e quelle donne di un tempo oramai finito camminerei come un altro vagabondo per strada e non saprei dove andare.
In Dublin, on the 16th of June 2013.
Featured image, una rara cartolina di Villanova Strisaili nel 1970 che mi diede, mi pare, don Vinante quando pubblicai ISOLE – quella sorta di antologia ogliastrina nel 2005, e che regalo a tutti come le storie che mi raccontavano i miei zii e i miei nonni, che non si possono comprare perché non hanno prezzo. Questo bisognerebbe che se lo ricordassero in molti, ai piedi di quella meravigliosa montagna.
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