di Rina Brundu. A fine estate lo ricordo più attivo. Si appressava il tempo della vendemmia e le sue visite alla vigna in Su sartu e Xosso si facevano quasi giornaliere. Vestito in giacca e pantaloni di un fustagno colorato, tra il giallo e il verde, tra il giallo e il marrone, berthula in spalla scendeva in piazza a prendere la corriera che lo avrebbe portato fino alle aride vallate a metà strada tra Villagrande e Tortolì. Tornava di buon umore, con la sacca piena di pesche succose, acini bianchi o rosati, giganti, e poi, stanco, sedeva davanti al caminetto spento o fuori, sulle panchine in pietra dove anche noi ci radunavamo a collìe su friscu. Parlava poco e gesticolava ancora meno. Fumava il sigaro soltanto. Un mozzico che si riduceva a dimensioni minime nel tempo. Lo accendeva con gesti lenti, incendiandone la punta con lo stesso colore brillante di una brace dispettosa, prima di infilare proprio quella parte oramai ardente in bocca, mentre fili di fumo minimi sfuggivano a fatica dalle sue labbra serrate.
Non avevo capito che quel gesto che mi lasciava perplessa ad ogni occasione raccontava tutto di lui, più di mille parole. Non avevo capito e allora non lo sapevo che era stato uno di quei ragazzi del ’99 richiamati ai salti ribelli di Sardegna per andare a combattere una guerra in cui non credevano in nome di un re di cui non sapevano. E non avevo capito che lui l’aveva vissuta male, nella peggior maniera. Il suo silenzio presente era forse figlio di un urlo lanciato molto prima, quando per avanzare verso il nemico occorreva farsi largo spostando corpi appena caduti o cadaveri putrefatti di amici, compagni, vicini con la baionetta. E non finiva mai! Una volta disse proprio così: non finiva mai!
Oltre al silenzio amava la solitudine. La solitudine che la nostra vigna rigogliosa lontana da ogni centro abitato gli regalava come nessun altro luogo al mondo. Ricordo una sua strana felicità quell’unica sera in cui mi fu concesso di trascorrere la notte nella casetta colonica. Ricordo una cena all’aperto su un tavolino di legno, tovaglia a quadretti e una bizzarra atmosfera di sole al tramonto che incendiava il cielo e ammantava ogni filare e ogni acino d’uva di una pelle splendente. Vellutata. Ricordo grida spaurite di uccelli rari, odore di mosto e un’aria finissima quasi impossibile da respirare. Esistere diventava tutt’uno con la coscienza di essere. Proprio lì. In quell’istante perfetto.
Per me, bambina, il nonno era sempre stato vecchio, forse perché lo era, forse perché nella Sardegna di allora si invecchiava veloce, ma è indubbio che nel tempo lo diventò più di prima. Lontano dalla sua vigna, costretto prima in casa e poi a letto, si spense lentamente e smise di parlare del tutto, anche se a suo modo riusciva a spiegarsi ancora. Come quel dì in cui, causa la scuola o i giochi con gli amici, non andai a trovarlo e lui se ne ebbe a male, mi fece capire, sempre senza fiatare. Nel suo manifesto dolore per l’assenza, il suo regalo più grande: regalo di nonno.
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