Di tutti gli sport del mondo, la boxe è forse quello che più volte è stato riportato sul grande schermo, il più cinematografico in assoluto. Perché ha già in sé qualcosa di epico e simbolico, e perché spesso racconta storie di persone che dalla polvere hanno raggiunto le stelle, per poi cadere nuovamente in basso e magari, alla fine, rialzarsi ancora.
È la forza di tornare a combattere dopo essere stati spediti ko da un destro fulminante, di uscire dalle corde proprio nel momento in cui si è sottoposti a una raffica micidiale di colpi. Ma tra le tante storie di pugili veri raccontate al cinema, forse, è un personaggio di fantasia ad aver incarnato meglio di tutti gli altri lo spirito del ring: Rocky Balboa.
Rocky è l’outkast, l’emarginato per antonomasia. Un grandissimo incassatore, uno che nella vita, come sul ring, ne ha prese tante, ma non ha mai mollato. Nessuno lo vuole, nemmeno il suo allenatore, che lo ritiene una schiappa. Solo per una geniale trovata pubblicitaria viene sfidato dal campione del mondo Apollo Creed, che pesca il suo nome a caso dall’albo dei pugili, per un’esibizione nel giorno del Ringraziamento. Il confronto è impari per tecnica e mezzi economici. Mentre Apollo è un professionista affermato, Rocky si allena in una palestra scalcinata, corre per le strade di Filadelfia, sale e scende le scalinate del Museo d’Arte della sua città, prende a pugni i quarti di bue della macelleria in cui lavora il futuro cognato Paulie. Rocky però a qualcosa in più: la fame e la voglia di emergere che mancano ad Apollo, e poi ha Adriana. Perde l’incontro ma esce a testa alta, arrivando fino alla 15esima ripresa e mandando al tappeto il campione. Rocky viene dal nulla e nel nulla è pronto a tornare, serenamente, insieme ad Adriana, che scavalca le corde per abbracciarlo sul ring, mentre lui urla il suo nome. E la gente lo ama per questo.
Lo spirito della saga, che conta ben sei titoli, sta tutto nel primo capitolo. Stallone ci ha messo tre giorni a scrivere la prima stesura, successivamente modificata più volte, e ha forgiato così un vero capolavoro, premiato con tre Oscar. I capitoli successivi non reggono il confronto, fino al più recente Rocky Balboa, prodotto nel 2006. Se il secondo, con la rivincita contro Apollo e la conquista del titolo, ha sicuramente un suo perché, non altrettanto si può dire del terzo, che mantiene il suo centro d’interesse intorno al legame d’amicizia che unisce gli ex rivali, adesso uniti nella sfida di Rocky a Clubber, per riprendersi la corona che lo stesso pugile afroamericano (interpretato da Mr. T), gli ha tolto.
Il quarto è un minestrone che rimane a metà tra la boxe e la spicciola retorica reaganiana di fine Guerra Fredda. Rocky si mischia con Rambo e ne viene fuori un prodotto artisticamente mediocre. Certo, il personaggio del pugile sovietico Ivan Drago, affidato a Dolph Lundgren, è piuttosto azzeccato. Il suo «ti spiezzo in due» è certamente una delle battute più incisive nella storia del cinema. Trash, sì, ma anche profondamente cult, l’epica di Rocky IV è stata alimentata dai cinque giorni di terapia intensiva che Stallone ha dovuto affrontare dopo che un tremendo pugno di Lundgren gli ha incrinato le costole. Robe da snuff movie.
Sul quinto capitolo sarebbe davvero meglio sorvolare, perché quel Rocky che diventa manager di un ragazzo ingrato, ripagato alla fine da una sonora lezione fatta di pugni dati per strada, ma rigorosamente a favore di camera, non è piaciuto proprio a nessuno. Un vero flop che non poteva segnare la fine di uno dei più grandi personaggi della storia del cinema. E allora eccolo il nuovo capitolo, Rocky Balboa, col ritorno sul ring dell’ex campione, ormai sopra i 50 anni, per sfidare il più forte pugile della nuova generazione.
Un’operazione nostalgia perfettamente riuscita, in cui la retorica dei sentimenti non è mai stucchevole, ma sempre funzionale a ridisegnare quel bellissimo ritratto già composto col primo capitolo. Come in quell’occasione, Rocky perde, ma lo fa ancora una volta con dignità, arrivando fino al termine dell’incontro, e mandando al tappeto un avversario abituato a vincere i suoi match in 20, 30 secondi. Ancora una volta, come la prima volta, Rocky esce sconfitto, ma è il suo nome a essere acclamato dal pubblico. Adriana è morta, ma è ancora dentro Rocky. Il figlio Robert si ricongiunge col padre, che su di lui proietta un’ombra enorme. E il cerchio si chiude alla perfezione.
Rocky torna vero e duro, torna a emozionare e commuovere, con la ripresa dell’elogio della sconfitta e di tutti gli altri temi che l’hanno reso indimenticabile. La corsa sulla scalinata, gli allenamenti con mezzi di inferiori a quelli dell’avversario, i pugni contro i quarti di bue, la colonna sonora incalzante, dall’esaltante Fanfare a Eye of the Tiger. Rocky è il simbolo della rivalsa, un messaggio di speranza per tutti. Perché la vita è dura, e spesso ti manda al tappeto, ma ogni volta bisogna trovare la forza di rialzarsi e riprendere a combattere.
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OA | Gabriele Lippi