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Sportività all’inglese

Creato il 11 aprile 2013 da Delpiera @PieraVincenti

milanEra il 17 agosto 2003 quando mi trovato a Londra a casa di alcuni parenti a guardate in tv un Liverpool-Chelsea terminato con la sconfitta dei Reds per 2-1. Invaghita di Michael Owen ero, insieme a un bel bambino biondo, l’unica tifosa del Liverpool  fra tanti supporters dei Blues. Al fischio finale, un cugino di secondo grado mi ha allungato la mano. Era un gesto di sportività ma io, cresciuta nella ristretta mentalità italiana, come prima cosa ho pensato: «Questo mi vuole sfottere».
Sono rimasta per qualche secondo a fissare quella mano tesa, indecisa se stringerla o meno. Alla fine l’ho stretta e in quel preciso momento è davvero terminata la partita. Non come sarebbe accaduto in Italia, dove gli amici tifosi della squadra avversaria mi avrebbero preso in giro tutta la sera, sottolineando quanto fosse forte la loro squadra e scarsa la mia, ma come accade in Inghilterra dove la coscienza sportiva è maggiormente sviluppata e il rispetto per l’avversario sconfitto è sacro.
Quando ripenso a questo episodio sorrido, ma anche un po’ mi indigno, verso ciò che accade nel nostro paese dove qualche settimana fa i tifosi juventini esultavano per l’uscita del Milan dalla Champions e oggi i tifosi milanisti si vendicano esultando per la sconfitta dei bianconeri. Parliamo di globalizzazione, di Europa unita, ma siamo campanilisti e ancora eccessivamente legati a degli ideali (in questo caso una squadra di calcio) che sentiamo nostri ma che non ci apportano alcun beneficio.
Un tifoso vero dovrebbe guardare al calcio con occhi più obiettivi, gioire e piangere per le vittorie e le sconfitte della propria squadra, ma mostrare rispetto per l’avversario e riconoscerne i punti di forza, avendo anche il coraggio di ammettere i difetti della propria squadra.
Guardando a ciò che accade in Italia e, purtroppo, ancora in molte parti del mondo, sembra che avesse ragione Guttman nel sostenere che «caratteristica dello sport è quella di risvegliare nell’uomo istinti ancestrali, come la lotta per la sopravvivenza e la natura predatoria, che vengono però circoscritti entro ambiti che ne attenuano il carattere aggressivo mediante l’introduzione di una serie di regole atte a punire i gesti violenti. La violenza non scompare, dunque, viene soltanto mediata, sottoposta alle leggi degli eventi mimetici che lo sport mette in scena».
Troppo spesso questa violenza, che in campo è attenuata, si risveglia sugli spalti o fuori dagli stadi, e quanto avvenuto lunedì in occasione del derby tra Roma e Lazio ne è un triste esempio. Se è vero che scegliere la squadra del cuore significa diventare attori e affermare un’appartenenza simbolica, è altrettanto vero che questa appartenenza debba esprimersi sempre, come detto in precedenza, attraverso il rispetto delle regole civili e dell’avversario, che è il nemico da battere soltanto in campo e non fuori.


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