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L’ultima volta che ho visto un film estero ambientato in Italia è stato in occasione di Afflicted, povera truzzata che aveva vinto non si sa come tutti i premi possibili al Fantastic Fest: bello l’entusiasmo ma fin troppo innocui i propositi, e di questa storia che supereroizzava il vampirismo rimanevano soltanto gli splendidi scenari delle coste liguri. Scenari, appunto, non c’era molto altro a definire l’ambientazione prevalentemente italiana, mancavano presupposti culturali e sicuramente anche l’interesse nel farlo, d’altronde era grossomodo un film action e il tricolore aiutava giusto con il suo tocco caldo ed esotico, ma andava bene comunque, perché non c’era il bisogno di fare i simpatici aggiustando l’immagine italiana secondo fini un poco sleali. Intendiamoci, l’orgoglio patriottico è ben poco ed è più la vergogna a venire esportata, ma non è questo il punto, o meglio, non è questo ciò che mi interessa, perché al di là di quello che viene rappresentato è il come a risaltare, e il miglior come possibile lo si può ottenere soltanto inseguendo il maggior realismo possibile.
È il particolare che più mi ha colpito di Spring, e sebbene a questo stesso realismo si debbano sottrarre alcune parentesi di non poca sospensione all’incredulità, geografica, sociale e anche semplicemente umana, rimane forte l’impressione che Justin Benson e Aaron Moorhead siano una spanna molto sopra a tanti colleghi, in grado come pochi di fotografare una fetta umana e replicarla su pellicola perdendo poco o niente. È un po’ strano come sia venuto a conoscenza del loro secondo film, pur avendo apprezzato molto Resolution mi sono dimenticato dei due registi, ritrovandoli soltanto grazie a Jeremy Gardner, che è il tizio paffutello e barbuto che ha scritto, diretto, recitato e ammazzato un sacco di zombi nel meraviglioso The Battery. Non è forse un caso, o almeno mi piace pensarla così, che Gardner, dopo aver dipinto una psicologia finissima e spaventosamente credibile nel suo capolavoro del 2012, appaia qui, anche se per pochi minuti, quasi a spingere, o quantomeno ad allacciare al suo pensiero cinematografico, la forte impronta umana di Spring, che per molti minuti della sua durata scansa l’attitudine horror con una verbosità generalmente estranea al nostro cinema preferito.Quasi due ore di dialoghi ricchissimi e appena due personaggi a spartirsene la maggior parte con un’indagine attenta e meticolosa della nascita di un amore: Evan e Louise si incontrano per caso in Italia e parlano di tutto e di niente cercando di annullare il passato tormentato che alimenta la fuga di entrambi. Sono in queste radici indie che Benson e Moorhead sviluppano quel concetto realista di cui si sono appropriati, quasi a rivendicarlo, perché Spring si compone esclusivamente, e salvo per l’ovvia concessione soprannaturale, di uno sguardo veritiero e credibile come purtroppo non si vede poi tanto al cinema.
Ora non so se questo fosse il loro preciso intento, ma tendo ad allontanare una presa di posizione così forte e controcorrente, eppure i due personaggi, o quanto meno Evan data la forte complessità di Louise, riflettono magnificamente la loro natura: non sono particolarmente simpatici e/o carismatici, non possiedono un qualche tipo di ironia magnetica con cui far presa sullo spettatore né possono contare su un appeal fisico che abbatta lo schermo (okay, lei è molto bella, ma non basta, eh), ma Benson e Moorhead li riempiono di una normalità straordinaria fatta di racconti, sorrisi, parole, risate. Tutto si protrae a lungo, le conversazioni sono destrutturate e allungate ben oltre i limiti che imporrebbe una semplice pellicola, ma il loro non è un parlarsi addosso bensì un dialogare felice toccando e ricordando argomenti che qualsiasi altro film probabilmente rifiuterebbe, cercando di rientrare in binari prestabiliti e molto più comodi (vedi anche la lunga parte con i due inglesi, non così lontana da ciò che si potrebbe ritenere superfluo). La storia d’amore è genuina ed è questo ciò che importa, l’innamorarsi di Evan e Louise è graduale e non nasce solo da un’attrazione fisica o comunque da una seduzione reciproca e fortemente passionale che li travolge e li lascia senza fiato, è un qualcosa che compongono entrambi parola dopo parola, conoscendosi.
L’introduzione soprannaturale vive delle stesse regole, è misteriosa, gioca con gli stereotipi e stuzzica parecchio con la sua vasta mitologia ma è rivelata e permessa da lunghi chiarimenti che scansano la brutalità dello spiegone con la naturalezza di parole, gesti e reazioni che invocano e ottengono la maggior semplicità e credibilità possibile. Questo vagare tra richiami vampirici, riti esoterici e antichità lovecraftiane (ben accentuato non solo dalle trasformazioni ma anche dalla significativa insistenza dei primi piani sugli insetti) sazia chi cerca l’iniezione d’orrore con la stessa brillantezza con cui veniva gestita la faccenda meta in Resolution, sporcando di ruvida esteriorità un apparato in realtà molto più complesso e profondo. Certo, c’è il rischio che la genesi di Louise sprofondi in un una sequenza di informazioni incomplete utili giusto a far girare la finzione, in fondo non sono pochi i fattori in gioco con quello che si viene presto a sapere e pare impossibile che lei possa essere così poco glaciale e per certi versi furba, ma si tratta per me di un bel ribaltamento di situazione comportamentale e aiuta a immedesimarsi con un personaggio che è proprio così che si presenta, baloccandosi con i cliché e ricomponendoli in una versione più completa, matura e umana.E la sequenza di dettagli è talmente sincera, è così calcolata e importante che non importano le varie mancanze che si incontrano ben più di una volta, alcune imprecisioni che fanno anche sorridere ma alle quali ci si abitua presto accettando l’accento poetico che acquisisce subito la ruralità costruita dal duo di registi e sceneggiatori: l’improbabilità che un contadino settantenne possa conoscere l’inglese, o il lavoro nei campi visto nel lirismo dei frutti raccolti e dei bei paesaggi ma mai nella fatica e nel sudore speso, o ancora, non so, il bere dozzine di birre in un posto turistico che un turista senza soldi non può permettersi, sono scivoloni che potevano essere evitati facilmente da chi è in grado di costruire personaggi così potenti, ma proprio in virtù di queste figure, e di una valanga di particolari che non solo rappresentano una bella fetta tricolore (il mobilio Ikea con cui Louise ha arredato la casa, le passeggiate con cui i Carabinieri spargono supponente terrore, gli sposi e il fotografo, e molto altro) ma danno l’idea di uno scenario possibile, concreto, fatto e costruito dalle stesse persone normali che, al suo interno, si trovano a vivere una vicenda che, con le dovute concessioni soprannaturali, è quanto di più squisitamente normale si possa chiedere.
Non so se Spring possa marcare così a fondo e farsi ricordare come un altro film con simili intenti come Honeymoon, nel capolavoro di Leigh Janiak c’era un calore che qui, pur con una storia d’amore di infinitesimale concretezza, viene sfumato con minor passione e credo si tratti di un’inflessione che si fa sentire, o che almeno, pur parlando in termini di briciole, a me un poco ha pesato. Poco male, qui c’è grande cinema (indie) ed è probabile sia altra tappa importante della bella crescita della scena horror di quest’ultimo periodo. Grande conferma.
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