Si prepara a debuttare sui palcoscenici italiani il prossimo ottobre: Spring Awakening è l’acclamato successo di Broadway che finalmente anche il nostro paese potrà conoscere in tutta la sua forza, perché l’opera, tratta dal famoso “Risveglio di Primavera” di Frank Wedekind, è pronta a cambiare le regole del musical anche in Italia. Conosciamo meglio lo spettacolo attraverso le parole del regista Emanuele Gamba.
Per temi e struttura, Spring Awakening si presenta immediatamente come un’opera coraggiosa: che tipo di approccio alla regia hai dovuto impostare?
Ho conosciuto Spring Awakening vedendo un video pirata della versione americana; e mi sono divertito, e molto commosso. Mi parlava di me; di me di quasi 30 anni fa, ma mi ricordavo tutto. E bruciava ancora. Broadway ha prodotto un capolavoro semplice e franco e questo – a mio avviso – ne ha decretato il grande successo. Quella prima visione e il seguente studio del copione ha indicato la via, obbligatoria, l’unica per me che potesse far vibrare quel rigoglio stupito che è il fondamentale humus di questa storia: la semplicità franca dell’emozione, questa era l’unica maieutica capace di far vivere i personaggi.
Il resto, avendo a disposizione il cast che abbiamo, è stato semplice e bellissimo.
Gli argomenti, le caratteristiche, il rapporto con la musica: Spring è un lavoro decisamente sui generis. A tuo avviso quali sono i suoi maggiori elementi di originalità?
Il maggiore elemento di originalità di Spring risiede a mio avviso nell’intuizione dei due autori di “manomettere” un testo cruciale di uno dei massimi drammaturghi europei del XIX secolo. Da questa iniziale spregiudicatezza, da questa iniziale libertà di approccio – qui è proprio il caso di parlare di approccio – derivano tutte le coraggiose scelte stilistiche che compongono la drammaturgia dei testi e della musica. Del testo di Wedekind – ovviamente – rimane un distillato alle volte forse troppo asciutto ma il suo alternarsi ai numeri musicali, permette di riformulare un continuo riequilibrio delle necessità della narrazione.
Dirigere un’opera come Spring significa anche confrontarsi con la versione americana, che ha avuto un incredibile successo: che differenze ritieni ci siano tra l’originale e la vostra?
Forse deluderò qualcuno ma ho visto lo Spring americano soltanto una volta; quella prima volta e neanche tutta d’un fiato. Visto il grande successo volevo sinceramente evitare di rimanere incastrato in una forma di soggezione spaventata e quindi mi sono buttato sullo studio solitario della drammaturgia.
Prima di tutto grazie all’intuizione di Pietro Contorno abbiamo spostato il racconto nei giorni bui del ventennio, da lì siamo partiti per raccontare la nostra storia e ci siamo avvitati per un po’ di tempo su un progetto scenografico che guardasse all’architettura dell’Eur. Dopo settimane di colonne ed emicicli è arrivata l’idea semplice e funzionale: trattandosi di storia in cui la scuola incarna quel conformismo feroce e aggressivo che frustra e violenta i nostri personaggi, perché non ridurre tutto ad un grande banco di scuola semovente. E dietro a questo banco perché non immaginare una grande lavagna, che forse per problemi di autorevolezza si è accidentata incastrandosi nel terreno, perdendo centralità ed equilibrio. E perché su questa lavagna, come si faceva quando si segnava sul retro il nostro dissenso o i nostri segreti… non scriviamo a grandi lettere le ragioni cantate dai ragazzi? Ed ecco nascere l’idea del racconto video che è una specie di traduzione in segni e disegni della traduzione linguistica delle canzoni.
Il resto – che rimaneva addirittura di importanza centrale per me – si sostanziava nella preoccupazione che la parte recitata dello spettacolo fosse preziosa e curata come fosse stata un Wedekind originale.
Un musical, un’opera rock, una pièce teatrale: ti sei fatto un’idea su come poter presentare Spring? E soprattutto, che cos’è?
Sinceramente non mi interessa troppo includere Spring in una categoria; Spring Awakening è semplicemente una storia bella e coraggiosa che narra di giovani vite alla ricerca di un senso. Spring è il “Canto della Natura”, di quella selvaggia che ci circonda coi suoi monti, i suoi boschi, i suoi laghi, i mari, i cieli e di quella intima che visitiamo – e che ci visita – ogni giorno e ogni notte della nostra vita per indicarci la via e spingerci su un cammino di crescita e conoscenza.
Quali sono le componenti di Spring che ti hanno maggiormente stimolato e incuriosito come regista? Quali invece ti hanno messo in difficoltà?
Per me fare una regia significa percorrere parallelamente due strade, realizzando una specie di accerchiamento verticale del testo. La strada che passa sopra il testo me lo fa vedere dall’alto, medianicamente, mi regala una veduta del tutto, mi aiuta più che a capirne il significato ad averne un’impressione, a farmene sentire la temperatura emotiva; l’altra strada che passa sotto il testo mi aiuta ad organizzare un sottosuolo sul quale possa poggiare la traduzione scenica del racconto: il gioco degli interpreti, la loro relazione nello e con lo spazio, la dinamica fra parola e canto. Con gli anni ho imparato a non avere paura delle difficoltà che spesso un testo ti presenta; ho chiesto e ottenuto da tutti onestà, generosità e fiducia e in questo clima nessuna particolare difficoltà ha spaventato né me né i miei attori.
Spring è un’opera coraggiosa: è una scelta coraggiosa anche il portarla sui palchi italiani oppure pensi che il nostro pubblico sia effettivamente pronto?
Portare Spring sui palcoscenici italiani è senz’altro un atto coraggioso; ma il tempismo con cui Stefano Brondi ha tirato fuori il titolo è stato addirittura perfetto, e per certi versi taumaturgico. In Italia siamo alla fine di un altro – l’ennesimo – ventennio e al momento di un bilancio di questa importanza serve da parte di tutti (palco e platea) onestà, verso i temi da affrontare, generosità nel cedere per ricevere qualcosa, e fiducia nel fatto che questa sia l’unica via che meriti di vedere tante primavere.
Che tipo di pubblico immagini per Spring?
Chiunque sia stato adolescente è lo spettatore ideale di Spring; unica altra condizione è che se ne ricordi e si intenerisca per quella imbarazzante sconvolgente età dello slancio e del disagio che ci ha fatto sentire tutti sulle montagne russe. Un giorno fra le nuvole e il giorno dopo – o anche 5 minuti dopo – sottoterra.
La giovinezza e il conflitto generazionale sono la chiave di lettura dell’opera: oggi la conflittualità tra genitori e figli, tra studenti e scuola, tra singolo e istituzione, sembra essersi affievolita. Secondo te Spring è un lavoro anacronistico oppure gli autori hanno avuto la capacità di intravedere nuovi dati sociali difficili da scorgere?
Risveglio di primavera (1891) di Wedekind era pura avanguardia, sconvolgente e scandaloso e infatti dovette aspettare 15 anni e un grandissimo ed influente regista come Max Reinhardt per essere messo in scena; Spring Awakening è la sua metamorfosi rock più di 100 anni dopo e l’amore che decine di migliaia di “giovani adolescenti e adolescenti vecchi” gli hanno regalato è la dimostrazione che il conflitto – seppur magari sotterrato di gran fretta – rimane aperto e doloroso.
Azzardo ? Se Frank Wedekind fosse nato a New York negli anni ‘60, non avrebbe scritto Risveglio di primavera; ne sono sicuro, avrebbe scritto Spring Awakening.
[fonte: www.springaweakening.it]
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