Se c’è un’industria che in Italia non conosce crisi è quella dello scaricabarile, delle colpe e delle responsabilità attribuite sempre ad altri. Ma questa raffinata produzione ha bisogno di carburante, di energia che nel nostro Paese è rinnovabile come un elemento naturale, come il vento e il sole: l’ipocrisia e la doppia morale che consentono di avere una sorta di ideologia mobile, affermata quando conviene e negata invece quando si rivolge contro i propri interessi.
Talvolta questa “ideologia italiana” diventa più chiara e più evidente nei casi marginali più che in quelli clamorosi, dentro i discorsi discreti piuttosto che in quelli sfacciati e tracotanti. E’ il caso di Fiorenza Mursia, presidente della omonima e gloriosa casa editrice che in una lettera al Corriere se la prende con le banche che mettono in difficoltà le aziende e non consentono loro di arginare l’offensiva dei grandi gruppi multinazionali come Amazon, che da distributori finiranno per trasformarsi in editori (qui). ” Dimettiamoci tutti” dice la Mursia e di certo ci sarebbero pochi che potrebbero darle torto sulle banche. Il problema è che rivolgendo giustamente il dito contro gli istituti di credito e la loro funzione ormai snaturata, contemporaneamente lo si allontana da sé ovvero dall’imprenditoria che pure non è affatto esente da colpe, da pigrizie, da furbizie dalla ricerca di scorciatoie politiche e da un’ideologia che idolatra liberismo e mercato salvo quando esso diventa sfavorevole.
Il discorso prende le mosse dalla domanda di Sergio Rizzo che in occasione del passaggio della Ducati all’Audi si è chiesto dove siano gli imprenditori italiani. Ecco sarebbe interessante sapere dove sono quando non si tratta di appalti pubblici dove com’è noto c’è trippa per gatti, dove sono quando leggiamo nelle statistiche che sono fanalino di coda per gli investimenti in genere e soprattutto per quelli in tecnologia e innovazione dove sono quando delocalizzano al solo scopo di fare più utile da investire poi nella finanza, dove sono quando cercano di addossare sui lavoratori una crisi di produttività che deriva dagli scarsi investimenti. La signora Mursia risponde che ci sono, che combattono sugli spalti a difendere ci che hanno costruito e che ”un sistema bancario totalmente fuori controllo sta minacciando di disintegrare”. Già ma fuori controllo in che senso? Chi è che lo dovrebbe controllare in un sistema di libero mercato nel quale da decenni si va dicendo che lo stato è un elemento negativo per le forze animali del capitalismo, che dovrebbe ridursi ai minimi termini, al minimo indispensabile?
E con quale irrealismo della contraddizione la signora Mursia chiede che “prima della riforma del mercato del lavoro, prima delle liberalizzazioni il governo deve, ripeto deve, imporre alle banche di riaprire le linee di credito, rispettare i contratti sottoscritti, ridurre i costi dei servizi”. Questo di certo non avverrà con un governo sostanzialmente legato alla finanza, dove la sovrabbondanza di banchieri ne fa una sorta di filiale della Bce e nel quale non esiste la benché minima traccia di persone che abbiano a che vedere con la produzione di beni che non siano sotto forma di variegati rettangoli di carta. Ma anche se ci fosse un altro esecutivo con quale strumento si potrebbero “obbligare” le banche se non con una nazionalizzazione de facto?Le contraddizioni del neoliberismo esplodono senza che nessuna o pochi abbiano voglia di riconoscerlo e si aggrappano alla parte contraddittoria che più conviene come se fosse una scialuppa.
Tuttavia che qualcosa non vada nell’imprenditoria italiana lo si capisce da due affermazioni . La prima è una sorta di lamento di Portnoy nel quale si dice che gli imprenditori fronteggiano la crisi mettendo mano ai proprio patrimoni. Ma non è così che dovrebbe funzionare oppure in Occidente e soprattutto in Italia si è affermata la prassi di accumulare capitale senza reinvestirlo e il pensiero che l’azienda e l’imprenditore sono due mondi separati? La strada che poi porta al capitalismo che chiede libertà assoluta con i soldi pubblici. La seconda quella che riguarda Amazon e compagnia, lascia ancora più perplessi : possibile che gli editori non abbiano compreso che comunque una parte del mercato del libro sarà on line come per qualsiasi altro prodotto perché è più comodo, perché solo le persone dai 40 in su hanno una qualche probabilità di provare l’intimo piacere della libreria e nel contempo l’orrore per l’ignoranza dei commessi e per la lunghezza dei tempi? Possibile che non ci sia arresi all’idea che comunque una parte di mercato riguarderà l’ebook nelle sue più diverse forme?
Non voglio nascondermi le grandi difficoltà che ci sono, ma oggi l’editore deve campare su idee originali e non più solo sull’originalità dell’autore che poi spesso viene ricompensato con una miseria. Del resto non abbiamo che le idee in un mondo omologato dove conta solo lo squalo più grande che ci impone pessimi libri fatti con lo stampino, pessima musica e nessuna idea che non sia un gadget? Il fatto è che per troppo tempo si è sfregata la lampada magica per farne uscire il genio a cui sono stati chiesti bassi salari, pochi diritti, meno welfare per ridurre i carichi delle imprese. Si è sfregata la lampada con Berlusconi con Prodi e adesso con Monti, ma è stata come la la corsa della regina rossa, anzi peggio perché si sono fatti dei passi indietro. Chiedere alla banche di concedere crediti quando guadagnano con pochi rischi sui titoli di stato e sui prestiti a interesse stracciato della Bce o della Fed, sarebbe come chiedere agli imprenditori di non delocalizzare, di tenere conto della loro responsabilità sociale, di reinvestire nell’azienda una forte quota dei profitti.
Questo mondo è il risultato del pensiero unico sul quale si è investito e molto negli ultimi vent’anni. E ora che il risultato è quello che vediamo non si può chiedere indietro la quota parte. Si può solo amaramente constatare di essere travolti da desideri che ripugnano alla coscienza e da una coscienza che ripugna ai desideri.