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Squarci di settima arte: la Nouvelle Vague e il cinema moderno

Creato il 29 luglio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

François Truffaut, figura di riferimento della rivoluzione dei modi di fare e intendere il cinema sviluppatasi in Francia alla fine degli anni ’50, sosteneva di appartenere “a una generazione di cineasti che hanno deciso di fare film dopo aver visto Quarto potere”. Riferimento che si sostanzia come un’evidente sineddoche, una vera e propria parte per il tutto, che fa dell’imprescindibile capolavoro di Orson Welles, il più paradigmatico depositario di un’operazione di svecchiamento della settima arte, delle sue tecniche, delle sue tendenze, fatta propria in seguito -e con modalità per certi versi opposte al barocchismo compositivo del cineasta americano- dai neorealisti italiani, altro punto di riferimento insostituibile per gli autori francesi della Nouvelle Vague, la cui filmografia si sostanzierà in generale come un tentativo scopertamente eversivo e distruttivo teso a far deflagrare gli stilemi del cinema classico hollywoodiano, la sua tendenza all’ingabbiamento di prodotti artistici all’interno di dinamiche commerciali e industriali, lo strapotere dei tycoon e con esso la soffocante rigidità in cui era costretto il lavoro del regista. Al posto dei canoni costrittivi del montaggio invisibile, i registi della “nuova onda francese” privilegiavano la libertà del piano-sequenza; alla logica tradizionale del campo/controcampo sostituivano l’epifanizzazione casuale prodotta da una macchina mobile, alle storie rigidamente concatenate in cui tutto era riconducibile a uno schema azione-reazione opponevano strutture narrative inusuali in cui il racconto poteva anche trasformarsi in un mero pretesto, sfruttato per mettere in luce uno stile pienamente moderno, cioè posteriore al classico, ad esso drasticamente opposto, capace di ringiovanire un’arte che a sessantacinque anni dalla sua nascita già risultava carica di minacciose sclerosi.
Il fenomeno Nouvelle Vague appare però decisamente incomprensibile se non letto in relazione al fermento inquieto e febbrile delle nuove generazioni ferocemente critiche contro la questione d’Algeria o alla trasformazione dell’intero mondo culturale che proprio in Francia trovava il suo polo di riferimento. La fine degli anni ’50 fu caratterizzata infatti dalla nascita di quella costellazione di esperienze letterarie partorite da autori come Marguerite Duras o Alain Robbe-Grillet, riconducibili sotto il nome di Nouveau Roman o Ecole du Regard, tese verso l’orizzonte dell’antiromanzo, caratterizzate da un rigetto pressoché totale del concetto di personaggio o di psicologia del personaggio, da un attenzione fotografica alle cose, agli oggetti e ai dettagli, imperniate su schemi narrativi oscuri e criptici, su percorsi diegetici privi di senso apparente, tesi a rappresentare la condizione dell’individuo nella società contemporanea, il suo disorientamento all’interno di una civiltà industriale, tecnologica, sottomessa allo strapotere della macchina, dell’oggetto e della merce -non a caso centri nodali quando non unici di una narrazione svincolata dalle azioni umane.
Tale propensione al superamento dei canoni estetici tradizionali fu ripresa anche dai cineasti della Nouvelle Vague in cui però l’interesse alla condizione dell’individuo moderno veniva reso attraverso una discesa concreta nelle strade, nei territori del vissuto sociale, alla ricerca di quello “splendore del vero” filtrato dalla lezione neorealista. Al “cinema di papà”, confezionato con cura per perseguire la “bella immagine retorica”, l’impostazione luministica tradizionale, il colore morbido e flou, registi come Godard, Rohmer e Truffaut opposero un cinema-verité libero di girare per i veri ambienti di cui tratta come si trattasse di un cinegiornale, fondato sul celebre concetto di Alexandre Astruc di camera-stylo (cinepresa-penna), cioè di macchina da presa flessibile e rapida, capace di lavorare per annotazioni rapide e di tradurre visivamente il mondo mentale del regista attraverso le immagini (al pari della scrittura per l’autore letterario). Altra nozione fondante della Nouvelle Vague era quella della politique des auteurs, una sorta di “criterio dell’autorialità” capace di innalzare definitivamente il cinema al livello di arte -e non di mero intrattenimento industriale- e basato sull’idea di una perfetta coincidenza tra film e regista, come se il prodotto audiovisivo creato non fosse altro che un’emanazione, mediata dalla cinepresa, del suo modo di intendere il mondo. Una simile concezione della settima arte derivava ovviamente dall’attaccamento reverenziale, carico di tinte di natura quasi metafisica, dei giovani cineasti che diedero vita al movimento nei confronti del cinema stesso. Truffaut, Godard, Rohmer, Rivette, Chabrol e tutti gli altri registi riconducibile all’orizzonte tecnico-ideologico della Nouvelle Vague, erano prima di tutto cinefili incalliti, formatisi tra i sedili della Cinemateque Française, dove avevano avuto modo di maturare una coscienza critica -prima che pratica- del cinema (spesso soprattutto delle opere di autori lontani dai canoni classici -come il già citato Welles- e pertanto osteggiate dalle grandi circuiti distributivi), affinata in seguito attraverso quel perfetto tirocinio professionalizzante costituito dai famosi Cahiers du cinema, rivista di cinema tuttora in commercio fondata da André Bazin, attorno alla cui figura i futuri cineasti fecero della loro infinita passione un lavoro. Proprio nella redazione di quelle gloriose pagine, i grandi autori del cinema francese crearono un polo rivoluzionario potentissimo, veicolando gli ideali fondativi di un nuovo cinema a cui effettivamente riuscirono a dar vita già dalla fine degli anni ’50.

Festival di Cannes 1968: registi in sciopero in solidarietà con la rivolta studentesca.     Da sinistra: Claude Lelouch, Jean-Luc Godard, François Truffaut, Louis Malle e Roman-Polanski.

Festival di Cannes 1968: registi in sciopero in solidarietà con la rivolta studentesca.
Da sinistra: Claude Lelouch, Jean-Luc Godard, François Truffaut, Louis Malle e Roman-Polanski.

Ora, per le solite annose ragioni di spazio, il mio progetto di sintesi si ritrova di fronte a un bivio: lavorare su frammenti minimi e prodigarmi in un elenco indifferenziato e compilativo dei film di tutti gli autori storicamente ricondotti alla Nouvelle Vague oppure scegliere e sacrificare, illustrando il senso complessivo di un’esperienza estetica imprescindibile per la storia del cinema attraverso un numero drasticamente esiguo di opere. Ritenendo sterile, inutilmente nominalistico oltre che concretamente impossibile riassumere in poche pagine le filmografie estremamente floride di autori come -cito a titolo di esempio- Chabrol o Godard (più di cinquanta film ciascuno), seguirò la seconda via e -come ho già fatto nell’episodio dedicato a Hitchcock- sceglierò cinque titoli imprescindibili, capaci di illuminare la drastica rottura inaugurata dalla Nouvelle Vague, il punto di non ritorno decisivo da essa segnato nella definizione di quell’orientamento rivoluzionario e innovante della settima arte accademicamente e storicamente conosciuto come cinema moderno.
I primi tre titoli risalgono allo stesso anno, il 1959, momento storico in cui il fenomeno Nouvelle Vague passa concretamente dalle pagine dei Cahiers du Cinema alla dimensione pratica della celluloide. Si tratta di Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, I quattrocento colpi di François Truffaut e Hiroshima mon amour di Alain Resnais. Si tratta di tre straordinari capolavori, tre eventi che segnarono storicamente una cesura totale nei modi di intendere la settima arte.

Fino all'ultimo respiro (A bout de souffle), Jean-Luc Godard, 1959

Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle), Jean-Luc Godard, 1959

Il film di Godard, forse in modo più evidente degli altri due, si pone in aperta e palese opposizione nei confronti degli stilemi claustrofobici del cinema classico, sistematicamente ribaltati uno dopo l’altro. Bastano le primissime scene del film a dare esempio di questa palese pratica decostruttiva. Il film si apre con il dettaglio di un giornale, in un richiamo velato a quel mondo dei mass media che costituirà un leitmotiv del cinema di Godard. Poco dopo il giornale si abbassa e appare Michel Poiccard (Jean Paul Belmondo) in primo piano. Già in apertura il cineasta rinnega lo schema classico di costruzione geografica dello spazio, improntata come noto sulla rappresentazione totale dello luogo d’azione e sul progressivo avvicinamento alle figure umane. Il francese comincia dal particolare, negando una visione completa del luogo diegetico, in un tentativo di disorientamento spettatoriale che si protrarrà per l’intera pellicola. Per di più il personaggio di Michel evidenzia la sua natura meramente finzionale, reiterando il gesto tipico di Humprey Bogart (il passaggio del pollice sopra le labbra), in una citazione al cinema classico intesa come omaggio a un modello estetico sorpassato, che non c’è o per lo meno non dovrà esserci più, una sorta di saluto affezionato.
Subito dopo, Michel ruba un’automobile e s’invola verso Parigi. Nel breve viaggio, l’uomo è ripreso principalmente dal sedile posteriore, di tre quarti, anomalia evidentissima rispetto alla tradizione classica che poneva la macchina da presa in modo da cogliere i piani ravvicinati e frontali dei suoi personaggi. Un altro scarto si produce pochi secondi dopo la partenza quando il protagonista, di punto in bianco, si volta direttamente verso la cinepresa -stavolta posta sul sedile di fianco al suo e, rivolgendosi direttamente allo spettatore, dice “Se non vi piace il mare, se non vi piace la montagna, se non vi piace la città: andate a quel paese”. Una violazione imperdonabile per il cinema classico qui utilizzata per segnalare un’avvenuta trasformazione e per testimoniare la libertà del regista rispetto alle restringenti convenzioni produttive. Ancora qualche secondo e Godard illustra tutta la sterminata specificità del nuovo cinema a cui intende dar vita: Michel è inseguito da due motorette della polizia, la sua macchina si ferma in un vicolo e un agente lo raggiunge. L’uomo afferra la pistola e uccide l’agente. Fin qui non ci sarebbe nulla di ambiguo o particolarmente rivoluzionario: il fatto è che Godard illustra con dettagli ravvicinati i muscoli tesi del braccio di Michel, si prolunga fino alla mano che carica il colpo ma salta proprio il momento culminante, mostrando direttamente il poliziotto che cade a terra morto. Una stessa azione viene spezzata in più inquadrature, nella connessione delle quali Godard sbaglia volontariamente i raccordi, producendo un effetto di salto, in un’operazione comunemente definita jump cut. Procedimento che peraltro il regista francese utilizza in modo evidentemente anti-classico anche a livello narrativo e diegetico: mancando l’evento principale (lo sparo) e relegandolo al fuori campo, Godard impone una nuova logica narrativa non più fondata su una successione di nuclei forti, che escludano gli elementi accessori e di scarsa rilevanza ma esattamente sul rovesciamento di tale dicotomia. Il cineasta propone una vera e propria “epifanizzazione dell’irrilevante” (usando le parole dello studioso Paolo Bertetto), ovvero una sottolineatura visiva e narrativa di momenti non funzionali all’evoluzione del racconto cinematografico. Si pensi alla successiva e famosissima scena all’Hotel de Suede in cui per quasi 23 minuti Godard riprende le conversazioni di scarso interesse tra Michel e l’amata Patricia, non curandosi peraltro della logica ferrea del campo e controcampo e posizionando a caso la macchina da presa, tra brevi inquadrature fisse e long takes di diversa lunghezza, in modo da riprendere i personaggi nella loro spontaneità quotidiana e da sublimare quella vorace fame di realismo, quell’esigenza di fissare il divenire eletta a missione principale della Nouvelle Vague, molto legata ai temi di libertà e nulla propri dell’esistenzialismo novecentesco.

I quattrocento colpi (Les 400 coups), François Truffaut, 1959

I quattrocento colpi (Les 400 coups), François Truffaut, 1959

Se con Fino all’ultimo respiro, la matrice rivoluzionaria della “nuova onda francese” si palesa già nei primissimi istanti attraverso un poderoso apparato tecnico-formale dominato da un’ansia potente e intransigente di nuovo, Truffaut costruisce il suo I quattrocento colpi in modo meno intensamente programmatico, veicolando il suo ideale di libertà estetica attraverso la diegesi e soprattutto per mezzo del piccolo protagonista Antoine Doinel (quel Jean-Pierre Leaud a cui il regista dedicherà una serie di film che ne descriveranno la crescita, un caso unico nella storia del cinema), bambino ribelle, inquieto e irrequieto, con una madre civetta, un padre distratto, un amico fedele, l’abitudine di marinare la scuola e il sogno innocente di vedere il mare.
La trasgressione formale che costella il film di Godard viene profondamente minimizzata da Truffaut, tradotta nell’uso frequente di long take e nell’abolizione della logica rigorosa del campo e controcampo all’interno della scena del colloquio di Antoine con la psicologa del riformatorio in cui il ragazzo viene spedito per il furto di una macchina da scrivere. In quest’occasione, Truffaut non si prodiga nel mostrare le due controparti della conversazione ma al contrario si focalizza sul solo ragazzino, evocando la presenza della donna attraverso la sole voice off, in modo da rafforzare l’identificazione dello spettatore con il suo protagonista.
Ma è probabilmente nel finale che il regista parigino rappresenta al massimo grado la natura moderna e svincolata dal passato del nuovo cinema di cui I quattrocento colpi si pone come ideale paradigma. Antoine fugge dal riformatorio e si prodiga una corsa lunga quanto simbolica e liberatoria. Giunto su una spiaggia, la macchina da presa lo riprende dall’alto come un piccolo punticino nella distesa sabbiosa e a poco a poco gli si avvicina, fino a bloccarsi nel fermo immagine più famoso della storia, che lo ritrae in mezza figura, stagliato su un mare che profuma tanto di libertà. Quella di un nuovo cinema.

Hiroshima mon amour (id.), Alain Resnais, 1959

Hiroshima mon amour (id.), Alain Resnais, 1959

Di altra natura l’apporto dato da Alain Resnais alla rivoluzionaria ondata cinematografica sviluppatasi in Francia alla fine degli anni ’50. Il cineasta di Vannes infatti non fu mai una solida parte integrante del movimento ma piuttosto lo attraversò tangenzialmente, contribuendo però in modo comunque nettissimo alla trasformazione del linguaggio cinematografico che proprio quel movimento si proponeva di mettere in atto. Resnais coniugò una ricerca formale originale, fondata sul movimento incessante della cinepresa, realizzato attraverso continue carrellate, a una sperimentazione incessante sulle forme del racconto. Le strutture diegetiche canoniche, in Resnais, cedono il posto a modalità narrative permeate dell’influsso del modernismo letterario. La linearità spazio-temporale nei suoi film viene stravolta a favore di organismi filmici basati sulla giustapposizione di presente e passato, vita e ricordo o addirittura sull’acronia ovvero l’indistricabile fusione di piani temporali che rende impossibile riconoscere un presente solido a cui ancorarsi. A volte il punto di partenza delle sue storie può non essere affatto un criterio narratologico ma un teorema scientifico -come accade in Mon oncle d’Amerique, che si costituisce come dimostrazione della tesi sui comportamenti umani dello scienziato oltre che co-sceneggiatore Henri Laborit- o la logica imprevedibile del caso, del gioco degli scacchi, propria del dittico Smoking/No smoking, giocati sulla logica del “se invece”, due film speculari in cui la direzione di un racconto iniziale cambia in relazione alla scelta della casalinga protagonista di accendersi una sigaretta.
Il film più paradigmatico di questa sua tendenza alla rimodellazione delle strutture del racconto è senza dubbio il suo lungometraggio d’esordio Hiroshima mon amour, improntato sull’impossibile storia nata tra un’attrice francese e un architetto giapponese. Rinchiusi in un amore privo di futuro, entrambi ripercorrono il proprio passato: l’uomo ricorda il terribile episodio della bomba atomica, la donna il tragico amore che consumò durante la guerra con un soldato tedesco ucciso davanti ai suoi occhi nella natia Nevers. L’analisi del passato conduce a una riappropriazione del presente, alla necessità di comprendere che la vita deve andare avanti.Hiroshima mon amourè in questo senso la voce di una coscienza collettiva, basata sul rimpianto, il ricordo, la necessità di sopravvivere nella perdita generalizzata e sulla consapevolezza della dura ricostruzione -interiore ed esteriore- di uomini e nazioni. Il tema della memoria -ripercorso parallelamente attraverso i ricordi dei protagonisti e i momenti documentari fatti di immagini di repertorio e panoramiche su musei di rovine- si connette a quello apocalittico della bomba già esplosa, all’interno di una prosa cinematografica nuovissima, fatta di ripetizioni e di voci over, di un ritmo quasi ipnotizzante nel quale si immerge un poetico caos visivo fatto di frammenti di ricordi, avvenimenti vissuti o immaginati, legati in modo più simile alla realtà sensibile che non all’ordine e alla regolarità della narrazione classica.

    L'anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad), Alain Resnais, 1961

L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad), Alain Resnais, 1961

Ben più criptico è invece il successivo L’anno scorso a Marienbad sceneggiato da Alain Robbe-Grillet e non a caso profondamente influenzato dai caratteri costituitivi del Nouveau Roman. Ambientato in una villa lussuosa, il film ruota intorno all’incontro tra un uomo e una donna che, innamoratisi, decidono di fuggire l’indomani. Quest’incontro però viene reiterato su piani temporali differenti,in spazi sempre nuovi e attraverso prospettive di volta in volta differenti. L’incontro è già avvenuto, sta avvenendo o deve avvenire? I vari incontri rappresentati sono reali o si propongono soltanto come proiezioni mentali dei protagonisti? Fanno forse capo a realtà oniriche, virtuali, ipotetiche? Questo affascinante senso di confusione che fa del film una sorta di INLAND EMPIRE (David Lynch, 2005) degli anni ’60, questa imprevedibilità sostanziale che pone un parallelo tra la casualità di una struttura filmica tutta da decidere e decifrare e quella del gioco dei fiammiferi che funge da leitmotiv alla narrazione, è immersa in una regia dominata da lente carrellate funeree e ieratiche, accompagnate da una voce off che in certe occasioni aderisce al protagonista, in altre si dà come essenza sonora disincarnata. Una voce che al contrario dei canoni classici sembra divertirsi a descrivere eventi differenti da quelli che appaiono sullo schermo, come a testimoniare la definitiva perdita di un senso univoco e totalizzante del reale, più che mai mosaico sfaccettato e multiprospettico in cui si alternano diverse alternative d’esistenza e differenti modi dell’essere. Così i protagonisti a tratti possono sembrare figurine di cartapesta immobili e privi di psicologia, in linea con l’abolizione del personaggio proposta da Robbe-Grillet, e in altre occasioni possono assumere dei ritratti concreti e approfonditi.

La jetée (id.), Chris Marker, 1962

La jetée (id.), Chris Marker, 1962

Giungiamo infine al 1962 per prendere in considerazione un capolavoro di solito scarsamente citato e ben poco considerato. E’ un piccolo film di appena 28 minuti, scritto e diretto da Chris Marker, pseudonimo di Christian François Bouche-Villeneuve, autore estremamente prolifico, audace sperimentatore strettamente connesso alla rivoluzione dei modi di fare cinema della Nouvelle Vague e profondamente influenzato dalla riflessione sulla memoria portata avanti dall’amico Alain Resnais. Il film in questione è La jetée, opera di fantascienza carica di fascino ed evocazioni, fondata su quel tema -già caro a scrittori come Wells Verne- del viaggio nel tempo, per mezzo del quale alcuni scienziati di un futuro post-atomico in cui l’umanità è costretta ad abitare il sottosuolo, inviano nel passato cavie umane con il compito di recuperare risorse utili alla sopravvivenza del genere umano decimato e di ripopolare la superficie terrestre. Gli esperimenti non vanno come dovrebbero: il viaggio nel tempo conduce alla follia o alla morte. Un giorno, gli scienziati -figure che ricordano i medici nazisti all’interno di un mondo concentrazionario com’è la società sotterranea del film, in un rifiorire del trauma della Shoah, rimosso per tutti gli anni ’50- scelgono come cavia un uomo dotato di un grande potenza immaginativa, segnato in profondità da un’immagine di infanzia, quella di una rampa d’aeroporto (la jetée del titolo), del volto di una giovane donna e della caduta straziata di un uomo. Se la sinossi vi ricorda qualcosa e sapete per certo di non aver mai vistoLa jetée, sappiate che nel 1996 Terry Gilliam s’ispirò al capolavoro di Marker per il suo -altrettanto magnifico- L’esercito delle dodici scimmie.
Ma al di là del racconto, imperniato sul quel tema del ricordo e del tempo che si rivelerà caratteristico dell’intera opera di MarkerLa jetée si pone come film imprescindibile per la logica ristrutturante del linguaggio cinematografico messa in atto dalla Nouvelle Vague, per la sua capacità -più unica che rara- di superare in modo pressoché totale la natura cinematica della settima arte, di annullare cioè quello che già nel 1895, al momento della sua comparsa, sembrava costituirne lo specifico: il movimento. Il cortometraggio di Marker è infatti composto di sole immagini fotografiche e dunque fisse (solo per una brevissima successione di inquadrature, più o meno a metà del racconto, si dà l’illusione di movimento): una contraddizione vivente per un evento cinematografico, tanto che l’autore nei titoli di testa parla di photo-roman, un genere per sua natura più legato alla letteratura (contaminata dalla fotografia) che al cinema stesso. Un rovesciamento di statuto, una problematizzazione nella definizione ontologica dell’opera ovviamente da ricondurre al tentativo eversivo e straniante di riplasmare il cinema e i suoi linguaggi, di svincolarsi dalle gabbie della classicità per approdare al moderno. In questo senso va letto inoltre il segmento filmico in cui l’uomo del futuro e la donna incontrata nel passato si ritrovano di fronte a un “tronco di una sequoia ricoperto di date storiche”, indicatore temporale attraverso cui il protagonista rivela la sua appartenenza a un punto diverso dalla catena degli eventi, ben più lontano, in un omaggio palese alla scena -praticamente identica ma costruita a parti rovesciate- de La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock che -come abbiamo avuto modo di notare nell’episodio a lui dedicato- nella sua complessità di evocazioni, simboli e pratiche autoriflessive si poneva già come preludio a un tipo di cinema adulto, moderno, svincolato dalle rigide implicazioni classiciste.

Robert Bresson

Robert Bresson

Prima di chiudere questo episodio, mi concedo una piccola divagazione, spostando l’orizzonte di riflessione dalle pellicole dei giovani turchi dei Cahiers du Cinema a un autore totalmente svincolato dal circuito dei registi Nouvelle Vague, dai quali lo divide peraltro uno scarto anagrafico di più di trent’anni. Un autore inclassificabile e per questo difficilmente inseribile in una rubrica che tende a circoscrivere la storia del cinema per macro-blocchi di senso. Un francese ovviamente che includo brevemente in appendice di questo articolo, dimostrando la mia debolezza nei suoi confronti. Si tratta di Robert Bresson, attivo già dagli anni ’40, fautore di un cinema della modernità ben prima della -comunque imprescindibile- rivoluzione di Godard & Co. Un cineasta capace di tagliare i ponti con la ricchezza di un cinema costruito per guidare per mano lo spettatore nella comprensione delle vicende per affermare -in un totale rovesciamento di tendenza- un’ideale di arte minimalista, aperta sul mistero inconoscibile del mondo, improntata sul criterio dell’impossibilità di una spiegazione fenomenica del reale e per questo costruita per sottrazione. Di scenografie, di dialoghi, perfino di recitazione (i suoi interpreti venivano chiamati “modelli”, non attori). Secondo Bresson infatti tutti questi “paraventi” -così definiva gli elementi filmici- ostacolerebbero la costruzione -da parte del pubblico- di una comprensione personale, di una riflessione meditata e soggettiva sul mistero del creato. Il cinema del cineasta francese si sostanzia come un’inquieta e sofferta indagine sul male del mondo, conducibile senza differenze di sorta attraverso gli occhi di un asino (Au hasard Balthazar) o quelli di una ragazzina costretta a negare la propria infanzia per salvaguardarsi da una realtà morbosa e opprimente (Mouchette). E’ anche un percorso indefinito di ricerca delle tracce di dio o dei suoi opposti, del bene e del male (Diario di un curato di campagnaIl diavolo probabilmente) spesso dirottato nella definitiva affermazione di una supremazia del caso sulle vicende umana, della logica alogica per cui le vent souffle où il veut, sottotitolo dello strepitoso Un condannato a morte è fuggito.

Stefano Oddi

FILMOGRAFIA COMPLETA

Come già detto, a causa della straordinaria prolificità di alcuni autori (il solo Godard ha realizzato -e continua a realizzare- più di 100 film), vi rinviamo per le filmografie degli autori citati agli schedari dell’Internet Movies Database.

Jean-Luc Godard: http://www.imdb.com/name/nm0000419/?ref_=sr_1#Director

François Truffaut: http://www.imdb.com/name/nm0000076/?ref_=sr_2#Director

Eric Rohmer: http://www.imdb.com/name/nm0006445/?ref_=sr_1#Director

Claude Chabrol: http://www.imdb.com/name/nm0001031/?ref_=sr_1#Director

Jacques Rivette: http://www.imdb.com/name/nm0729626/?ref_=sr_1#Director

Chris Marker: http://www.imdb.com/name/nm0003408/?ref_=sr_1#Director

Robert Bresson: http://www.imdb.com/name/nm0000975/?ref_=sr_1#Director


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