Squarci di settima arte: le origini e il cinema muto

Creato il 20 gennaio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Come potrete immaginare lo Speciale su LA STORIA DEL CINEMA (RACCONTATA DA TAXIDRIVERS)  non pretende in nessun modo di essere esaustiva e completa ma ha come fine ultimo quello di raccontare, da un punto di vista soggettivo, un panorama di film che vi consigliamo di recuperare. Con Stefano Oddi (curatore unico dello Speciale) abbiamo deciso di dividere questa sorta di Dossier in 12 capitoli che verranno pubblicati da gennaio a dicembre 2013. Lo abbiamo fatto per dare un inizio e una fine a un argomento che è troppo vasto per essere schedato ma, se lavorandoci, ci renderemo conto che il materiale editoriale a disposizione diventa notevole, non escludo che il prossimo anno sempre con Stefano magari accompagnato da altri redattori e redattrici di Taxidrivers si possa ampliare la ricerca e allargare il discorso a film, registi e movimenti cinematografici che per problemi di spazio quest’anno dovremo trascurare. Come lettori e lettrici di Taxidrivers, se lo ritenete utile, commentate questo o i futuri capitoli dello Speciale per dire la vostra su quali film mancano all’appello e volete  consigliare. Cominciamo lo Speciale col LE ORIGINI E IL CINEMA MUTO. Buona lettura

Vincenzo Patanè

Il faccione invecchiato del Noodles di Robert De Niro che si avvicina lento al piccolo pertugio del cesso di Fat Moe per guardare ancora una volta le danze sinuose di Deborah in C’era una volta in America, il carosello liberatorio in cui il Guido di Marcello Mastroianni ricataloga tutti i tasselli della sua vita in Otto e mezzo, l’enigmatico monolito nero attorno a cui si muove impazzito il gruppo di primati in 2001: Odissea nello spazio. E poi i MacGuffin di Hitchcock, la DeLorean volante di Doc Emmet Brown, i personaggi allucinati, nevrastenici e su di giri di Tarantino, i gesti ingenui e infantili del piccolo alieno ET…

Tutti questi squarci di cinema, e in realtà tutte le immagini che ogni spettatore del mondo ha strappato ai fotogrammi delle sue pellicole preferite per rinchiuderle nel cuore pulsante della propria memoria, devono la vita a un treno. Sì, proprio a un treno! Senza di esso niente sarebbe stato com’è. Da quello tutto nasce. E da lì tutto evolve. Dal genio ribelle e dalla voglia sfrenata di sperimentazione di due giovani fratelli francesi, al secolo Louis e Auguste Lumiere.

L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat), Louis e Auguste Lumiere, 1896

Figli di un fotografo, con una formazione scientifica alle spalle, i due perfezionarono in modo decisivo l’impressione di immagini della realtà esterna sulla pellicola di celluloide alla fine del XIX secolo e, mettendo in pratica per primi l’idea tanto semplice quanto geniale di bucarla ai lati, giunsero alla possibilità di farla muovere sia durante l’impressione che al momento della proiezione. In questo modo diedero vita al cinematografo, un’invenzione che giudicarono “senza futuro” ma che avrebbe cambiato il modo di guardare e concepire la realtà nel XX secolo.
In realtà, un simile sistema di scorrimento di immagini fisse messo in atto per dare un’illusione di movimento aveva trovato applicazione già pochi anni prima nel cosiddetto kinetoscopio dell’americano Thomas Edison che però consentiva una visione monoculare, impedendo dunque quella fruizione collettiva in cui la nuova invenzione dei Lumiere trovava la sua ragion d’essere.

I primi documenti cinematografici prodotti dai due fratelli furono più che altro registrazioni di fatti quotidiani, prototipi cioè dei moderni documentari.
Il 28 Dicembre 1895 nel Salon Indien del Grand Café sul Boulevard des Capucines di Parigi si tenne la prima proiezione cinematografica a pagamento della storia. Gli spettatori increduli videro prender vita immagini in bianco e nero che riproducevano l’uscita degli operai dalle Officine Lumiere.
I primi film duravano per lo più pochi secondi, a volte qualche minuto, e si prefiggevano scopi prettamente illustrativi e conoscitivi. I Lumiere vedevano il cinema come uno strumento capace di amplificare il potere sensoriale della vista e dunque di analizzare in modo più profondo la realtà. Proprio per questo nella filmografia di questi pionieri mancano -quasi sempre- intenti narrativi. Louis e Auguste documentavano il reale e il mondano, ponevano la loro cinepresa di fronte al mondo perché essa potesse epifanizzarlo e solo di rado predisponevano cose e persone in modo da creare un effetto che esulasse dalla mera registrazione dell’ordinaria trama del vissuto (successe con L’arroseur arrosé, prima farsa cinematografica che mostra lo scherzo messo in atto da un ragazzino nei confronti di un innaffiatore). Eppure, nonostante questa totale aderenza alla realtà -colta con tutti i suoi momenti di impasse e noia- i loro film ebbero comunque modo di sorprendere ed emozionare il pubblico inesperto, colmandolo di meraviglia e sorpresa.
Come leggenda vuole, alla proiezione de L’Arrivée d’un train à La Ciotat gli spettatori fuggirono impauriti, lasciando la sala vuota per paura che il treno mostrato sullo schermo li travolgesse.
Proprio questa proiezione diede all’invenzione senza futuro dei due fratelli francesi un’immediata e potentissima risonanza, travalicando gli angusti confini del laboratorio fotografico Lumiere e diffondendosi in tutto il mondo.

Ad accogliere la macchina cinema nelle sue grazie fu allora una personalità diametralmente opposta alla coppia dei fratelli fotografi: Georges Melies, illusionista, prestidigitatore, oltre che direttore di uno dei più celebri teatri parigini, il Robert-Houdin, già sede di spettacoli di magia, intervallati spesso e volentieri da proiezioni sorprendenti condotte attraverso strumenti pre-cinematografici come il kinetoscopio o la lanterna magica.
L’illusionista, presente alla prima proiezione cinematografica al Grand Cafè, riconobbe subito nel dispositivo dei fratelli Lumiere un’incredibile strumento magico e affabulatorio, capace di manipolare il mondo, deformarlo in modo ironico, surreale, grottesco e onirico; di trasformare la naturale quotidianità del reale in una materia poetica e carica di suggestioni; di colpire l’immaginazione e le emozioni dello spettatore in modo decisamente più profondo di qualsiasi altra canonica forma di spettacolo.

Così Melies orientò verso tutt’altra direzione gli scopi della macchina cinema inventata dai Lumiere: se questi aspiravano attraverso l’obbiettivo a riprodurre fedelmente il mondo per indagare scientificamente la sua complessità, egli puntò a decostruire il reale per ricomporlo in un ordine diverso, non più basato sui principi della verosimiglianza o della coerenza ma su quelli della poetica evasione verso un universo fiabesco, poetico e magico.
Sin dagli albori dunque, il cinema si propose al pubblico in una dialettica costante tra realismo e fantasia, due canali di comunicazione che lo animano ancora oggi in quell’opposizione basilare che separa il documentarismo dal cinema di narrazione.
I film di Melies si caratterizzavano per le invenzioni strambe, gli effetti magici e illusivi come se il maestro volesse trasportare su celluloide tutto l’enorme patrimonio di numeri e trucchi che come prestidigitatore conosceva alla perfezione.
Bloccando per pochi secondi la macchina da presa durante la registrazione e spostando gli oggetti che vi si trovavano di fronte, Melies ricreava sul supporto di pellicola la magia di sparizione; sovrapponendo immagini girate in precedenza su sfondi di vario tipo riusciva a moltiplicare esponenzialmente il numero di oggetti, di persone, di parti del corpo presenti nell’inquadratura; dipingendo a mano i fotogrammi dei suoi film conferiva alle immagini una forza straordinaria, trasformando la successione degli episodi ripresi in veri e propri quadri in movimento.
Il pubblico restava estasiato da quei lavori che parevano trascinarlo in un mondo diverso, altro, lontano da quello reale intriso di bollette da pagare, debiti e preoccupazioni.
E in quel Voyage dans la Lune che resta il suo capolavoro più noto, Melies inserì una serie di allusioni meta-cinematografiche che si riferivano proprio alla condizione del pubblico e alla sua personalissima poetica cinematografica, distante anni luce da quella dei Lumiere, inventori di un mezzo del quale non si servirono mai per diventare pienamente degli autori.
Mettendo in scena la storia di alcuni scienziati che teorizzano e poi attuano un allunaggio, il mago illusionista progettò la celebre scena in cui il razzo lanciato a velocità supersonica colpisce l’occhio della Luna. Una sequenza che, nonostante l’apparente semplicità fiabesca e infantile, cullava una profondità metaforica essenziale. In quello schianto c’era in realtà tutta la volontà del primo vero autore della storia del cinema di colpire l’occhio dello spettatore, la sua attenzione e la sua immaginazione, rivendicando la sua natura di arte per le masse e sancendo l’esplosione definitiva del fenomeno che da allora andò sempre più affinando i suoi dettami fino a giungere a una canonizzazione linguistica vera e propria.

Viaggio nella Luna (Voyage dans la Lune), Georges Melies, 1902

Per tutto il primo decennio del ’900 il cinematografo assunse una configurazione ben distante da quella con cui tutti noi lo conosciamo. Nelle sempre più numerose sale di proiezione -o più spesso in luoghi improvvisati- il pubblico assisteva a una successione di immagini mute, accompagnate da un imbonitore in carne ed ossa che le commentava, spiegando i passaggi più complessi, mentre un’orchestra ravvivava l’atmosfera con un sottofondo musicale.
Per di più -e forse proprio in questo sta la discrasia tra quell’affascinante e trapassato modo di far cinema e le nostre abitudini- le scene proiettate sullo schermo esulavano da una logica narrativa. Il cinema, ultimo arrivato nel vastissimo campo delle arti figurative, era associato più alle componenti ludiche e spettacolari del circo, del teatro popolare, degli spettacoli di varietà che non alla tradizione alta del teatro o del grande romanzo, fondati su un dominio pressoché totale della componente narrativa su tutti gli altri elementi del discorso.
Il cinema era più che altro sogno ad occhi aperti, sorpresa sbalorditiva, fantasmagoria. Anche quando la successione delle immagini si concatenavano in una storia, l’assenza di precise regole di costruzione del discorso, rendeva la narrazione anarchica, diseguale e discontinua, praticamente impossibile da seguire senza l’aiuto di un imbonitore sempre pronto a correre in soccorso di un pubblico impreparato.
Fu intorno al 1906 che il cinematografo modificò la sua natura in seguito alla prima crisi della sua breve esistenza. Come i fratelli Lumiere avevano previsto, i quadri animati e gli effetti magici alla Melies stancarono presto anche coloro che inizialmente avevano gridato al miracolo tecnico-artistico. Per fronteggiare il crollo di pubblico e di resa che ne derivò, il nuovo mezzo cominciò a modificare il suo statuto: da attrazione magica e anarcoide si trasformò in una macchina narrativa.
Sparì l’imbonitore -anche perché le limitate entrate economiche non permettevano di pagare una persona che fisicamente presenziasse e spiegasse alla proiezione- e al suo posto comparvero all’interno del film delle didascalie più astratte e meno corporee, ma comunque in grado di assolvere al compito di spiegare l’evolversi di una narrazione.
Parafrasando una celebre frase del critico Edgar Morin, la fine del primo decennio del ’900 vide “la trasformazione del Cinematografo in Cinema”, ovvero il passaggio da una concezione attrazionale della settima arte a una pienamente narrativa.
Il dispositivo senza futuro dei Lumiere garantì la sua sopravvivenza, reinventandosi cantastorie. Iniziò così un florido periodo di sperimentazione in cui i cineasti di tutto il mondo tentarono di imporre un ordine sempre più rigoroso alla narrazione filmica.
In Francia nacquero delle vere e proprie serie cinematografiche che recuperavano il principio sequenziale dei romanzi a puntate; negli Stati Uniti Edwin Porter realizzò brevi film molto moderni, caratterizzati da un montaggio ordinato e un ritmo serrato (The great train robbery e Life of an american fireman); in Inghilterra i primi pioneri del cinema si riunirono intorno alla cosiddetta Scuola di Brighton, con lo scopo di elaborare una grammatica e una sintassi della nuova forma artistica. Personalità come James Williamson e George Albert Smith misero a punto numerose soluzioni innovative che influenzarono prepotentemente il lavoro dei cineasti successivi. Innanzitutto sostituirono alla mera giustapposizione di inquadrature slegate, il principio del nesso, di un raccordo cioè capace di rendere più continuo e meno riconoscibile lo stacco tra un’immagine e la successiva. Lavorarono inoltre alla tecnica della sovrimpressione, usata finalmente in modo nuovo non più come trucco magico capace di amplificare la concezione del cinema come reverie ma come strumento indispensabile per perfezionare i meccanismi narrativi e renderli più serrati.
Furono inoltre i primi cineasti ad avvalersi dell’uso del primo piano, riconoscendone il valore di straordinario veicolo di identificazione tra attore, spettatore e regista.
In un universo di cartapesta, in cui la macchina da presa non era mai posta a meno di 5 o 6 metri dall’attore principale, i membri della Scuola di Brighton contribuirono a deteatralizzare il cinema, spianando la strada a quella canonizzazione dei modi di fare film e -attraverso essi- raccontare storie che giungerà a pieno compimento con il lavoro capitale e imprescindibile di David Wark Griffith.

Proprio in questo prodigioso e geniale regista statunitense la storiografia cinematografica riconosce uno dei padri fondatori della settima arte, come oggi la si intende.
Griffith fece tesoro di tutte le complesse esperienze messe in atto dai lavori della Scuola di Brighton e da un certo cinema italiano del tempo (in particolare fu suggestionato da Cabiria di Giovanni Pastrone, mega-produzione di due ore in cui si tracciava in modo lineare e altamente codificato la storia delle peripezie di una bambina romana al tempo della prima guerra punica, uno dei primi kolossal della storia) e definì una volta per tutte le convenzioni di base del cinema narrativo, istituendo quei caratteri fondanti della grammatica e sintassi filmica che, innalzati a criterio di organizzazione industriale dalla Hollywood dell’epoca d’oro, concorsero a fondare una lingua ufficiale del cinema, che domina -con le volute trasgressione e le dovute metamorfosi- ancora oggi.
Griffith sperimentò per più di dieci anni su un numero sterminato di corti prodotti per la Biographes, prima di giungere alla più compiuta forma del lungometraggio.
Fu il primo a comprendere la necessità del principio di variazione -fondamentale per infondere ritmo al film- e non esitò a lavorare sull’inquadratura, concentrandosi sulla possibilità di passare dai lunghissimi campi in cui la presenza umana si disperdeva nell’immensità paesaggistica ai più minuti dettagli su corpi e volti. Le figure intere o i primi piani cominciarono così a spopolare, alternandosi alle ampie panoramiche capaci di descrivere il territorio.
Proprio questa sterminata molteplicità di campi e piani spinse il regista ad approfondire il lavoro sulla sintassi, ovvero il modo di legare e tenere unita una gamma tanto eterogenea di immagini, azioni e movimenti, conducendolo a valorizzare la fase del montaggio, fino ad allora vista come un mero strumento tecnico utile soltanto per giustapporre quadri conseguenti. Griffith diede valore narrativo alla fase di editing e impose delle regole che permettevano di mettere ordine nel caos indistinto degli intrecci filmici, rendendo invisibile la transizione tra un’inquadratura e l’altra e permettendo allo spettatore un’immersione pressoché totale nella storia narrata. In parole povere, Griffith inventò i raccordi e diede vita alla lingua del cinema.
Se ancora oggi, guardando un film, troviamo naturale che al movimento di un personaggio che apre una porta, segua l’immagine dello stesso personaggio che entra dentro una casa, il merito è proprio di Griffith. E se non ci sorprendiamo quando la macchina da presa si stacca dal volto di un personaggio per mostrarci cosa sta guardando nel fuori campo, lo dobbiamo all’intelligenza e la sagacia di questo pioniere dell’arte filmica.
La pratica del montaggio divenne per Griffith così influente che tutti i suoi film più importanti vennero costruiti sull’intreccio articolato di storie parallele, a cui lo spettatore poteva assistere simultaneamente attraverso quella pratica filmica oggi conosciuta come “montaggio alternato” o appunto “montaggio alla Griffith” -una denominazione che costituisce un omaggio al suo creatore.
Il suo primo capolavoro, Birth of a nation, raccontava attraverso 190 minuti di girato (una durata impensabile per l’epoca) la storia dei membri di due famiglie americane durante la Guerra di Secessione tra nordisti e sudisti. Griffith passò in rassegna i destini di padri e figli, donne e bambini, rimbalzando continuamente tra le atrocità del fronte e la vita domestica, tra i tumulti di un mondo razzista in cui il Ku Klux Klan la faceva da padrone (e alla sua uscita il film fu duramente contestato per questa sua matrice intollerante e xenofoba) e la speranza in un futuro migliore.
Ciò che colpì oltre al rigore di un linguaggio cinematografico finalmente in grado di dare ordine al magma di immagini, campi lunghi e primi piani di cui la narrazioni si componeva, fu il grande lavoro che il regista mise in atto sugli interpreti: consigliando alle sue dive -da Mary Pickford a Lilian Gish- di evitare movimenti eccessivi e troppo concitati, di “parlare” col volto e con gli occhi, esaltando la microfisionomia e i gesti semplici e quotidiani, Griffith impose quel criterio di naturalezza che contribuì in modo determinante a liberare il cinema dal peso ingombrante della recitazione teatrale, troppo artificiosa e manierata.
Nei lavori successivi, il regista proseguì e amplificò il suo lavoro sul montaggio alternato. Nacque appena un anno dopo il celebre Intolerance, kolossal epico attraverso cui il cineasta statunitense tentò di confutare le accuse di razzismo che gli erano piovute addosso in seguito all’uscita di Birth of a nation. Se con il film precedente infatti aveva mostrato l’itinerario di odio, umiliazione e dolore attraverso cui si era sviluppata la genesi della nazione più potente del pianeta, con questo metteva in scena una cruda denuncia dell’intolleranza umana attraverso le epoche storiche, esaltando -per converso- quella solidarietà fraterna per mezzo della quale era possibile far nascere degli ideali “Stati Uniti del mondo”.
Griffith divise il film in quattro episodi, corrispondenti ad altrettanti momenti storici: il primo narrava della presa di Babilonia da parte dei Persiani, il secondo raccontava la Passione di Cristo, il terzo riproduceva la Strage di San Bartolomeo nel ’500 francese e il quarto giungeva alla contemporaneità, illustrando la vicenda di un uomo condannato a morte per un omicidio di cui non aveva colpa e quella della moglie che si batteva per provare la sua innocenza.
Griffith decise di montare tutte le storie in modo parallelo, producendo una suggestiva mescolanza tra tempi, luoghi e atmosfere e realizzando una vera e propria celebrazione del montaggio, eretto a fulcro portante dell’intera struttura filmica.
Come fu d’altronde per il successivo splendido Broken blossoms, decisamente lontano dall’afflato epico dei primi due kolossal e costruito invece attorno a una vicenda intima e dolorosa, quella di una tredicenne picchiata e seviziata da un padre alcolista e violento, perennemente diviso tra il suo lavoro da pugile e i pomeriggi passati in una bettola traboccante di ubriachi.
La ragazza -interpretata da una Lilian Gish mai così intensa e toccante- riuscirà a fuggire, trovando l’ospitalità di un commerciante cinese, senza però liberarsi dall’ombra violenta e temibile del padre padrone che si metterà sulle sue tracce.
Con questo piccolo gioiello, Griffith denunciò lo squallore della realtà americana, facendo finalmente dello straniero un personaggio meritevole di sentimenti positivi. Svanì così la xenofobia che pareva impregnare Birth of a nation, per lasciare spazio a una narrazione serrata, commovente, intimista e lacerante, in cui l’indagine psicologica e lo scandaglio interiore dei personaggi raggiunsero vertici mai toccati in precedenza.

Il grande lavoro compiuto da Griffith sul montaggio fece scuola in tutto il mondo e aprì di fatto la strada a tentativi di sperimentazione sempre più significativi nella pratica di editing. Furono in particolare i sovietici a rielaborare in forme molteplici il patrimonio del cineasta americano, ponendo verso il montaggio un’attenzione tale che tutta la successiva storiografia del cinema prese a considerare il cinema sovietico dell’epoca del muto come “arte del montaggio sovrano”.
Alla fine degli anni ’10, Lev Kulesov, futuro direttore del primo istituto nazionale di cinematografia di Mosca (e in realtà del mondo intero), mise in atto un esperimento col quale volle dimostrare il valore significante del montaggio all’interno del processo cinematografico.
Ritagliò da un vecchio film d’epoca zarista un piano che mostrava il volto -piuttosto inespressivo- di un famoso attore dell’epoca e lo accostò -senza mai apporvi la minima modifica- a tre immagini differenti: una scodella di minestra fumante, il cadavere di una bambina disteso in una bara e una bella donna sdraiata su un divano.
Montò il filmato e lo propose al pubblico che, contro tutti i pronostici, acclamò la potenza espressiva dell’attore di cui era stata mostrata sempre la stessa inquadratura. Nel primo caso il volto dell’attore -legato al piatto di minestra- sembrava quello di una creatura affamata, nel secondo si caricava di desolazione e dolore, nel terzo tradiva una certa eccitazione.
Attraverso l’esperimento, in seguito ribattezzato Effetto Kulesov, il suo creatore dimostrò che il senso di un prodotto cinematografico non deriva dai singoli piani in cui esso è spezzato ma nelle infinite possibilità di combinazione di quei fotogrammi permesse dal montaggio.
Diventato direttore del VGIK (Istituto statale pan-russo di cinematografia), Kulesov continuò la sua sperimentazione, diffondendo tra i suoi allievi il suo prepotente interesse nei confronti della fase di editing, considerata a tutti gli effetti l’unico veicolo capace di produrre senso all’interno dell’apparato filmico.

La personalità più eminente di questa florida stagione fu Sergej Michajlovič Ejzenstein, teorico del cinema prima che regista, autore innovativo, geniale, a più riprese glorificato ed inscritto nel novero dei più grandi cineasti della storia.
Come Kulesov -di cui fu anche allievo per un breve periodo- e anzi più di lui, Ejzenstein fondò la sua ricerca cinematografica sul potere del montaggio, sulla sperimentazione delle complesse e infinite possibilità semantiche e significanti producibili attraverso la concatenazione di quei frammenti sconnessi di realtà che erano i piani e i campi.
Ma il lavoro di Ejzenstein -documentato, catalogato e spesso spiegato nei numerosi volumi che lo stesso regista decise di redigere- raggiunse picchi di genialità e perfezione che gli esperimenti pionieristici di Kulesov non poterono che rimirare dal basso.
Il regista, discepolo di quel grande innovatore teatrale che fu Vsevolod Mejerchol’d, rigettò la linearità del montaggio tradizionale e ne elaborò concezioni via via diverse e innovative, basate sulla discontinuità narrativa, sull’associazione di materiali filmici eterogenei, sull’attivazione dell’intelligenza spettatoriale, applicandole concretamente nelle varie fasi della sua carriera.
Una delle sue prime e più geniali invenzioni fu il cosiddetto montaggio delle attrazioni, in cui la concatenazione delle immagini procedeva in modo disordinato e anarchico. Il regista connetteva inquadrature che rispondevano a ordini differenti di realtà, nel tentativo di violentare visivamente lo spettatore, di attivare la sua immaginazione perché saturasse le lacune del film e cercasse un senso e un nesso in grado di spiegare il legame tra un’immagine e la successiva.
In Sciopero, suo primo lungometraggio, Ejzenstein mise in scena la storia della ribellione di un gruppo di operai alle avverse e insostenibili condizioni dettate dai padroni di una fabbrica e della successiva terribile repressione attuata dalle forze armate.
Proprio nella terribile sequenza finale incentrata sul massacro dei dimostranti, era possibile ravvisare nella sua applicazione più pura l’idea di montaggio delle attrazioni: mentre sullo schermo passavano le immagini delle milizie armate che, a cavallo, sterminavano gli operai a piedi, Ejzenstein inserì immagini slegate dalla diegesi che descrivevano il macello dei buoi.
L’operazione mirava ovviamente a risvegliare la coscienza degli spettatori, a far sì che il loro cervello smettesse di essere passivamente immerso in una storia lineare e potesse invece interrogarsi attivamente sulle immagini che passavano sullo schermo, su quella metafora visiva che intendeva mettere in rapporto la repressione armata con la mattanza dei buoi, dichiarando che il destino dei proletari non era poi così dissimile da quello delle bestie da soma.

La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin), Sergej Michajlovič Ejzenstein, 1925

Più complessa era invece l’idea di montaggio intellettuale, che Ejzenstein definì come una fase più avanzata del montaggio delle attrazioni. Se questo infatti si proponeva di solleticare l’immaginazione del pubblico per portarlo a interrogarsi attivamente sulle insolite connessioni di immagini mostrate, il montaggio intellettuale mirava a creare delle idee, dei concetti astratti.
Più semplicemente -scrisse Ejzenstein- due inquadrature non dovrebbero essere legate da continuità e armonia -come pretendeva la teoria tradizionale del montaggio- ma piuttosto da un principio di conflitto. Un conflitto che può risolversi anche banalmente nel semplice scontro tra luce e ombra, masse e volumi di dimensioni diverse (ne La corazzata Potëmkin ad esempio la celebre sequenza della scalinata è giocata sull’opposizione tra le linee orizzontali dei gradini e i movimenti verticali dei soldati che scendono e dei rivoltosi che fuggono). Dunque, due piani successivi secondo Ejzenstein, devono essere montati in modo che sembrino collidere o urtarsi l’uno contro l’altro poiché “lo scontro di due elementi figurabili porta alla creazione di qualcosa che figurabile non è”, e dunque la giustapposizione di due inquadrature dal contenuto non continuo porterebbe inevitabilmente alla nascita di un elemento non visivo ma mentale, un’idea, un concetto astratto.
I film impregnati da tale logica del montaggio intellettuale erano costellati di momenti “difficili”, particolarmente oscuri, in cui l’accumulo di materiale e la successione di immagini totalmente sconnesse mirava a produrre un senso superiore che lo stesso regista molto spesso chiariva nei suoi scritti. In Ottobre, film commissionato dal Governo Sovietico per la commemorazione del primo decennale della Rivoluzione d’ottobre del 1917, Ejzenstein illustrava il ritorno di Lenin, l’assedio al Palazzo d’Inverno e la vittoria finale, intervallando però la narrazione con episodi slegati dal flusso diegetico. In un’occasione, in particolare, il regista decise di mettere in immagini l’idea dell’inconsistenza del concetto di religione. Raccolse allora una serie di fotogrammi che ritraevano idoli primitivi, per poi accostarli all’immagine barocca di un crocifisso cristiano. Mettendo sullo stesso livello i feticci primitivi -a volte mostrati solo a velocità subliminali per confondere ulteriormente la visione- e l’emblema della religione più diffusa al mondo, riuscì a fare del crocifisso un simulacro tra i simulacri, un oggetto tra gli oggetti, rendendo visivamente il suo ateismo.
I procedimenti costruttivi del montaggio delle attrazioni e di quello intellettuale furono applicati da Ejzenstein alternativamente in tutti i suoi capolavori, sempre fondati su una dialettica tra sperimentazione formale che mira al futuro e contenuto narrativo fortemente improntato al presente, al sociale o alla celebrazione di un passato glorioso. Così La corazzata Potëmkin, suo film più noto (Fantozzi a parte), metteva in scena l’avventuroso ammutinamento dei marinai della corazzata del titolo, uno degli avvenimenti che diede vita alla Rivoluzione del 1905, mentre con Il vecchio e il nuovo (o La linea generale) descriveva in modo dettagliato le vessazioni a cui i proletari dei piccoli villaggi russi erano sottomessi, per poi raccontare il tentativo di una contadina di modernizzare le tecniche agricole e meccanizzare la produzione per modificare lo stile di vita collettivo.

La passione di Giovanna d’Arco (La Passion de Jeanne d’Arc), Carl Theodor Dreyer, 1928

E mentre ad Oriente, Ejzenstein dava vita alla sua opera sperimentale, innovativa e propagandistica, l’Europa cinematografica si trasformava in una fucina di tendenze, correnti, scuole e indirizzi incredibilmente produttiva.
Nel freddo Nord, il cinema rifletteva i caratteri di una cultura dedita all’introspezione, alla psicologia del profondo, alla dialettica tra grandi spazi innevati e individui soli. Si trattava di un cinema intenso, appassionato, affascinante, in grado di penetrare nell’uomo e di interrogarsi sull’esistenza di una realtà superiore e trascendente. Un cinema che, insieme, sfociava nell’analisi sociale e nella reverie, mescolando realismo e senso del fantastico.
Nel Carretto fantasma di Victor Sjostrom, il regista sembra inizialmente puntare su un realismo antropologico: un proletario alcolizzato e bestemmiatore vive di espedienti e trascina la sua famiglia nel baratro, poi muore. Ma immediatamente subentra il fantastico: la sorella prende il suo posto negli Inferi e lui torna in vita, raddrizzando la sua vita e quella dei suoi cari.
Il miglior cineasta del cinema muto scandinavo resta però Carl Theodor Dreyer, magnifico interprete della cultura nordica, autore di un’opera complessa, scissa tra reale e trascendente, perennemente alla ricerca di tracce ultraterrene in un mondo gretto e malvagio. Tra i suoi migliori lavori ricordiamo Pagine dal libro di Satana, un’analisi della presenza del male nel mondo attraverso quattro differenti epoche storiche e La passione di Giovanna d’Arco, entrato nella storia del cinema come capolavoro della microfisionomia. Attraverso l’uso frequente del primo piano, Dreyer realizzò uno scandaglio pressoché totale delle emozioni della protagonista, accedendo alla sua vita interiore, mostrando quel profondo inconoscibile nascosto negli anfratti dell’anima.
Intanto, in Francia gli autori insistevano sul concetto di photogenie, per il quale la realtà posta di fronte alla macchina da presa si trasformerebbe, acquisendo una nuova espressività. Registi come Marcel L’Herbier, Jean Epstein e Abel Gance furono i primi a considerare il cinema alla stregua di una forma d’arte indipendente e tentarono a tal proposito di ricreare la realtà fattuale attraverso le proprie macchine da presa, ricercando effetti ottici di distorsione attraverso lenti particolari, impostando un’illuminazione che si facesse voce dell’anima più che espressione di verità.
Questo cinema soggettivo e intimista, fatto di allusioni e simboli ed etichettato come Impressionismo Francese costituiva il perfetto ribaltamento di quel che in Germania fu l’Espressionismo cinematografico, caratterizzato da una visuale imposta dall’alto, dalla sottomissione dell’individuo a un potere superiore e schiacciante.
Espressione calzante di un’epoca, l’Espressionismo incanalò la violenze, i soprusi e la sofferenza di una nazione stremata dalla Prima Guerra Mondiale e in bilico sull’orlo del baratro economico e li proiettò nelle trame e nelle tessiture formali dei film. Le paure, i timori e le ferite ancora aperte di una nazione seviziata e stuprata portarono i loro segni nel trucco aggressivo che deformava le fisionomie dei volti degli attori, rendendoli idealmente indistinguibili in una massa di schiavi sottomessi a un potere soverchiante; nelle scenografie oblique, stravolte, fatte di porte così basse da costringere gli attori ad inchinarsi e di vicoli che procedevano a zig zag immersi in un’illuminazione debole e tenebrosa; nelle trame dominate da sussulti onirici e psicotici, fatte di personaggi deboli pronti a sottomettersi ad abili manipolatori di coscienza. Basti pensare al Gabinetto del dottor Caligari, primo cult-movie della storia, capolavoro in bilico tra sonno e veglia, sanità e follia, realtà e allucinazione, in cui un mago da fiera sveglia ogni notte una mummia dal suo sonno eterno e la costringe agli efferati omicidi su cui il protagonista prende ad indagare.

Eppure autori eccezionali come Fritz Lang e Friederich Wilhem Murnau, le due maggiori personalità del cinema muto tedesco, non si barricarono ermeticamente negli stilemi dell’Espressionismo, piuttosto lo attraversarono tangenzialmente per approdare a orientamenti nuovi.
Il primo attraversò tutto l’ampio e variegato panorama dei generi, muovendosi tra il mito tedesco con il fluviale I Nibelunghi e la fantascienza con Metropolis, cronaca di un mondo che vede la definitiva separazione tra borghesia industriale -che vive in altissimi grattacieli- e proletariato operaio -relegato nel sottosuolo, fino a giungere al crime movie con quel perfetto primo film sonoro che fu M, tetro affresco di una città messa in subbuglio da un killer di bambini.
Il secondo, dopo Nosferatu, affascinante capolavoro espressionista che recuperò sotto falso nome il Dracula di Bram Stoker, divenne l’interprete più moderno e influente di una linea cinematografica tutta tedesca nota come Kammerspiel, concentrata su storie piccolo-boghesi sviluppate prevalentemente in interni. Il risultato più alto raggiunto da Murnau all’interno di questa tendenza fu senz’altro la coproduzione tedesco-statunitense L’ultimo uomo (o L’ultima risata), storia della caduta professionale (ed esistenziale) di un vecchio portiere d’albergo, retrocesso alla custodia dei gabinetti. Al finale cupo e pessimista per cui optò Murnau, gli americani vollero applicare un’appendice positiva, realizzando un happy ending tipicamente hollywoodiano e portando all’obbligo del doppio titolo.
Proprio in quell’America ottimista e democratizzante, Murnau migrò nel 1927 e proprio in quell’anno diede vita al suo capolavoro, Aurora, l’itinerario di crollo e redenzione di un pescatore sedotto da una ragazza di città e da questa convinto ad uccidere sua moglie: una storia d’amore feroce e commovente, toccante e vera, magnificamente sospesa tra le nebbie notturne di un lago campestre, dove l’uomo vacilla e lascia fuggire la consorte, e le luci accecanti della città in festa, tra le quali la coppia si ritrova.
Con Aurora, Murnau mostrò ad Hollywood le sue incredibili capacità dietro la macchina da presa, dando vita ai primi piani-sequenza della storia del cinema, elaborando complessi movimenti di macchina che riflettevano metaforicamente le oscillazioni di desiderio dei protagonisti e facendo scuola a quegli americani che pochi anni prima avevano imposto sul suo Ultimo uomo il proprio inconfondibile marchio di fabbrica.

Aurora (Sunrise), Friederich Wilhem Murnau, 1927

Eppure, i nomi ai quali è storicamente legata la mitologia popolare del cinema muto sono senz’altro quelli di Charlie Chaplin e Buster Keaton, i due grandi protagonisti del comico statunitense, autori vicini nello spirito e diversissimi nei modi di praticarlo attraverso l’immagine di celluloide, per certi versi accostabili in una comune visione del mondo, per altri rivali antitetici nel modo di intendere vita e cinema. Entrambi, però, artisti a tutto tondo: (quasi sempre) autori, registi, attori delle proprie opere.
Chaplin, inglese di nascita, costruì la sua fama attorno all’immagine tenera e malinconica del vagabondo -il famoso Charlot- dall’andatura distinta ed elegante, a tratti simile a quella di una marionetta, vestito di una giacca logora, una bombetta in testa e un paio di scarpe più grandi di qualche numero ai piedi. Un alter-ego che dominò tutte le sue prime produzioni, fungendo da punto di vista grottesco da cui osservare e stigmatizzare le brutture del reale, attraverso una prospettiva semplice e popolare, ironica e commovente, tenera, dolcemente improntata ai buoni sentimenti, aperta al grande pubblico perché lontana da intellettualismi di ogni sorta.
Proprio interpretando quell’omino ingenuo, sbadato e dal cuore d’oro, Chaplin analizzò tutto l’immenso spettro di sentimenti umani, problematiche sociali e congetture storiche che a suo avviso il cinema era in dovere di rappresentare.
Così, immerso nell’immensa ricchezza di trovate comiche che lo rese celebre, Charlot divenne padre putativo di un piccolo orfano nel meraviglioso Il monello, struggente requisitoria sul dramma dell’infanzia abbandonata e salace critica nei confronti dei barbari metodi usati dai funzionari degli orfanotrofi; percorse i sentieri innevati dell’America di fine ’800 in cerca di fortuna ne La febbre dell’oro, rintracciando nella sete mai paga di potere e ricchezza la genesi della nazione che l’aveva consacrato; fu una malpagata star comica ne Il circo, melodramma triste e malinconico tra gabbie di leoni addormentati e incredibili sketch di equilibrismo; descrisse lo stato di grazia dell’amore nell’indimenticabile Luci della città, rimbalzando continuamente tra una ragazza cieca capace di conquistare il suo cuore e un miliardario lunatico pronto ad essergli amico soltanto da ubriaco; criticò in modo irriverente la contemporanea società meccanizzata, consumistica e alienante in Tempi moderni.
Nel 1940 col Grande dittatore, in un attacco sfrontato e diretto al Nazismo di Hitler, passò definitivamente al sonoro, abbandonando la sua maschera comica, bonaria e ottimista per lasciar spazio ai ruoli più tragici e rassegnati degli ultimi capolavori crepuscolari: Monsieur Verdoux e soprattutto Luci della ribalta, vero e proprio testamento artistico e spirituale in cui interpreta un vecchio clown alcolizzato sospeso tra i ricordi di un passato glorioso.
Proprio in una scena di questo commovente congedo dal grande schermo il vecchio Charlot duettò con l’amico-rivale Buster Keaton, in una sorta di sfida ad alto tasso di comicità o di definitiva dichiarazione di pace firmata dalle due più grandi personalità del muto statunitense.

Il monello (The kid), Charlie Chaplin, 1921

Keaton, a differenza di Chaplin, tentò di immergere la sua irresistibile comicità in un’opera dai caratteri più complessi, in narrazioni serrate e aggrovigliate (come quell’adrenalinica avventura on the road che è Come vinsi la guerra) in cui il senso di personaggi e oggetti è sottoposto a una continua manipolazione, in cui ciò che a prima vista può apparire banale finisce per assolvere a una funzione primaria nello scioglimento dell’intreccio. Un’opera lontana da quella semplicità popolare e ingenua che caratterizza i migliori lavori di Chaplin e carica invece di note autoriflessive e metacinematografiche, pronte a svelare più che nascondere l’illusione del cinema.
Si pensi a film come La palla n° 13 o Il cameraman. Nel primo Keaton è un proiezionista insonnolito che non resiste alla tentazione di schiacciare un pisolino durante la proiezione di un film giallo e in sogno si trasforma nell’infallibile Sherlock jr. che ha visto recitare sullo schermo, giungendo -nei suoi panni- a risolvere un terribile mistero. La struttura narrativa si amplifica e si sdoppia: nel film principale s’innesta un secondo film, che coincide col sogno del protagonista, che oltre a catturare uno spettatore poco avvezzo a tali innovazioni, riesce a rendere per immagini il potere di suggestione della macchina cinema, capace di influenzare in profondità -fino al mondo onirico- la coscienza spettatoriale, e a riprodurre attraverso lo schermo il drastico e rivoluzionario cambiamento nel modo di concepire e -soprattutto- guardare la realtà che il XX secolo ha ereditato dall’invenzione senza futuro dei fratelli Lumiere.
La stessa complessità di implicazioni è ravvisabile ne Il cameraman, capitolo imprescindibile del cinema comico -e non solo- che racconta i tentativi di un goffo operatore alla cinepresa di ottenere un posto presso la prestigiosa casa di produzione Metro Goldwin Mayer per star vicino alla ragazza amata, che lì lavora come segretaria. Ne nascono fraintendimenti, disguidi, ritardi, inseguimenti, scene al limite del surreale, guerre tra clan mafiosi a Chinatown, gite in barca e scimmie salvatrici in grado di girare le manovelle della macchina da presa. Ma al di là dell’irresistibile apparato comico, il film divenne uno dei pilastri della cinematografia statunitense per la grande capacità di analizzare -ancora una volta- la grande trasformazione delle coscienze che il cinema aveva causato con la sua comparsa, la sua capacità di epifanizzare il reale, di ampliare a dismisura le nostre possibilità conoscitive e mostrare la verità del mondo fenomenico meglio dell’occhio umano. Tutte riflessioni su cui s’immergeranno in futuro autori del calibro di Michelangelo Antonioni e Francis Ford Coppola, riconoscendo ovviamente il valore sommo e insostituibile dei film di questo magnifico e indimenticabile artista.

Come vinsi la guerra (The General ), Buster Keaton e Clyde Bruckman, 1927

Nel momento in cui il cinema muto giunse alla sua perfezione tecnico-stilistica, concorrendo finalmente con la profondità di metafore, simboli, linguaggi e suggestioni acquisita da secoli dalle altre arti, il pubblico -complice anche la crisi economica che di lì a poco avrebbe messo in ginocchio il mondo intero- si dichiarò stufo dell’intrattenimento filmico e richiese ai produttori novità che potessero rimettere in sesto quella macchina delle meraviglie.
Detto fatto, nel 1927 il cinema prese voce. Nuove tecnologie -in realtà già esistenti da anni ma fino ad allora mai richieste- permisero di legare alla colonna visiva in bianco e nero, parole, suoni e rumori. Fu la fine di un epoca: molti attori, legati a un modo di recitare plastico e mimetico, furono rimpiazzati da nuove leve che facevano della voce il proprio punto di forza.
Alcuni registi -come Chaplin- inizialmente rinunciarono all’innovazione, continuando a seguire la strada del muto, altri cambiarono mestiere, molti cedettero al nuovo e si reinventarono autori di film sonori, spesso con risultati di incredibile livello (il già citato M di Lang).
Fu insieme un crollo e una rinascita di proporzioni gigantesche. Una rivoluzione epocale che condusse sul lastrico, alla morte o alla follia molte gloriose stelle del muto. Come quella immortale Norma Desmond che sul Viale del tramonto di Billy Wilder, si crogiola sospesa nella sua solitudine amara tra lettere di fan inesistenti e fotografie sbiadite di un passato scomparso, affermando con riottosa dignità di essere rimasta “sempre grande” mentre “il cinema [...] è diventato piccolo”.

Stefano Oddi

FILMOGRAFIA PARZIALE

- L’uscita dalle officine Lumiere (La Sortie de l’usine Lumière à Lyon), Louis e Auguste Lumiere, 1895
- L’innaffiatore annaffiato (L’arroseur arrosè), Louis e Auguste Lumiere, 1895
- La colazione del bambino (
Le rapas du bebe), Louis e Auguste Lumiere, 1895
-
L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat(L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat), Louis e Auguste Lumiere, 1896
- Viaggio nella Luna (
Voyage dans la Lune), Georges Melies, 1902
- Assalto al treno (
The great train robbery), Edwin Porter, 1903
- Life of an american fireman (
id.), Edwin Porter, 1903
- Viaggio attraverso l’impossibile (
Voyage à traversl’impossible), Georges Melies, 1904
- Quo Vadis?, Enrico Guazzoni, 1912
- Cabiria, Giovanni Pastrone, 1914
- La nascita di una nazione (
The birth of a nation), David Wark Griffith, 1915
- Intolerance (
id.), David Wark Griffith, 1916
- Giglio infranto (
Broken Blossoms o The Yellow Man and the Girl), David Wark Griffith, 1919
- Il gabinetto del dottor Caligari (
Das Cabinetdes Dr. Caligari), Robert Wiene, 1920
- Pagine dal libro di Satana (
Blade af Satans bog), Carl Theodor Dreyer, 1920
- Il carretto fantasma (
Körkarlen), Victor Sjostrom, 1921
- Il monello
(The kid), Charlie Chaplin, 1921
- Nosferatu (
id.), Friederich Wilhem Murnau, 1922
- Il fu Mattia Pascal
(Feu Mathias Pascal), Marcel L’Herbier, 1924
- I Nibelunghi (
Die Nibelungen), Fritz Lang, 1924
- L’ultimo uomo (
Der letzte mann ), Friederich Wilhem Murnau, 1924
- La palla n° 13 (
Sherlock jr.), Buster Keaton , 1924
- Il navigatore (
The navigator ), Buster Keaton e Donald Crisp, 1924
- Sciopero (
Stačka), Sergej Michajlovič Ejzenstein, 1925
- La corazzata Potëmkin (
Bronenosec Potëmkin), Sergej Michajlovič Ejzenstein, 1925
- La febbre dell’oro (
The gold rush ), Charlie Chaplin, 1925
- Ottobre (
Oktjabr’), Sergej Michajlovič Ejzenstein, 1927
- Napoleon (
id.), Abel Gance, 1927
- Metropolis (
id.), Fritz Lang, 1927
- Aurora (
Sunrise ), Friederich Wilhem Murnau, 1927
- Come vinsi la guerra (
The General ), Buster Keaton e Clyde Bruckman, 1927
- La passione di Giovanna d’Arco (
La Passion de Jeanne d’Arc), Carl Theodor Dreyer, 1928
- La caduta della Casa Husher
(La chute de la maison Husher), Jean Epstein, 1928
- Il circo (
The circus ), Charlie Chaplin, 1928
- Il cameraman (
The cameraman ), Buster Keaton e Edward Sedgwick, 1928
- Il vento (
The Wind ) Victor Sjostrom, 1928
- Il vecchio e il nuovo (
Staroye i novoye), Sergej Michajlovič Ejzenstein, 1929
- La terra (
Zemlya), Aleksandr Dovzenko, 1930
- M (
id.), Fritz Lang, 1931
- Tabù (
id. ), Friederich Wilhem Murnau, 1931
- Luci della città (
City Lights ), Charlie Chaplin, 1931
- Vampyr (
Vampyr – Der Traum des Allan Grey), Carl Theodor Dreyer, 1932
- Furia
(Fury), Fritz Lang, 1936
- Tempi moderni (
Modern Times) , Charlie Chaplin, 1936
- Il grande dittatore (
The great dictator ), Charlie Chaplin, 1940
- Monsieur Verdoux (
id. ), Charlie Chaplin, 1947
- Luci della ribalta (
Limelight ), Charlie Chaplin, 1952
- Ordet – La parola (
Ordet), Carl Theodor Dreyer, 1955


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