Stabat Mater

Creato il 01 agosto 2010 da Olineg

Mi pare di non aver letto mai un libro come Sabat Mater, mi pare di non aver letto mai un libro in cui godimento e leggibilità viaggiassero su binari così distanti. Perché il romanzo di Scarpa, insignito dello Strega nel 2009, non è semplice da leggere, per nulla; immaginate un racconto in prima persona di una ragazza di sedici anni cresciuta in orfanotrofio nella Venezia del settecento, senza mai vedere un uomo e senza mai farsi vedere da un esterno (se non il vecchio Don Giulio, maestro di musica e compositore di stanche aree, che le più talentuose delle ragazze suonano in chiesa dietro a delle pesanti grate), senza sapere nulla del mondo fuori dall’Ospitale, immaginate un racconto in cui i fatti reali si fondono a quelli immaginari senza che il lettore possa distinguere gli uni dagli altri, poi versateci sopra i turbamenti di un’adolescente, il formalismo linguistico impartito dalle suore, e tanto, ma tanto, mal di vivere. Viene fuori una scrittura che di certo non si fa leggere da sola, ma che sa regalare, a chi ci prova, una merce rara: la bellezza. Stabat Mater è un viaggio nell’angoscia notturna di una ragazza che scrive lettere immaginarie alla madre e che parla con una ragazza con dei serpenti al posto dei capelli (la sua morte), Stabat Mater è un viaggio nell’angoscia di tutti. Con questo romanzo Tiziano Scarpa disegna le tavole anatomiche del turbamento, e del dolore. Nella seconda parte, però, l’autore introduce un nuovo personaggio, don Antonio, che altri non è che il compositore preferito dello stesso Scarpa (non esplicito la sua identità, anche se i cultori di classica avranno già capito chi è, mentre gli altri, come il sottoscritto, dovranno rifarsi alle note dell’autore), e in fondo al tunnel si accende una luce, una luce che a chi vi scrive è apparsa vagamente artificiale.

Signora Madre, se vi dicessi che quel vecchio è morto mentre suonavamo, forse queste mie parole ne guadagnerebbero in solennità, ma probabilmente vi mentirei. Non posso dire con certezza che si sia spento mentre suonavamo per lui. Ma eravamo noi a suonare per lui, o lui a morire per noi?



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