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Stalin l’Anticristo

Creato il 01 maggio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

Non ci fu riconoscente nemmeno la morte, Dio!
Lo stalinista un verme uguale a un fascista.
Non ancora è stato sradicato il terrorismo stalinista che ogni giorno miete vittime a sinistra quanto a destra.

Lo presero di sorpresa mentre usciva dal centro sociale dove aveva appena finito di parlare del suo ultimo saggio politico Stalin come Gesù. Una pezza puzzolente di benzina e ben intrisa di cloroformio gli tappò la bocca. Uno, due, tre, e il mondo si spense.

Quando rinvenne era legato a una sedia.
Non l’avevano imbavagliato.
Dure corde lo tenevano legato alla spalliera d’una robusta sedia. Erano tanto strette che a malapena riusciva a respirare. Non aveva idea di chi potessero essere i suoi rapitori. Stavano di fronte a lui a volto scoperto ma lui non li conosceva. Sui loro volti non c’era traccia alcuna di emozione. Indifferenza: non si leggeva altro nei loro occhi marmorei. In tutto erano cinque: in mano tenevano una copia del suo libro Stalin come Gesù. In sottofondo una musica distorta, gli Afterhours di Manuel Agnelli. Lasciarono cadere a terra le copie dei libri e ci salirono sopra coi piedi. Giovanni trattenne il respiro. Gli parve d’aver notato un guizzo omicida in quegli occhi che lo fissavano. Ma niente. Se intendevano torturarlo lo avrebbero fatto con classe.
Giovanni si guardò intorno: non c’era niente di niente che valesse la pena di memorizzare. Una anonima cantina come tante e una lampadina appesa al soffitto. Schioccò le labbra. La musica veniva da un mangianastri a pile. Fece per parlare… in ogni caso sarebbe stato inutile e così tacque.
Un paio di forbici.
Gli tagliarono i lunghi capelli, lasciandogli solo ridicoli ciuffetti sul cranio. Finirono il lavoro passandogli a secco un rasoio da barbiere.
Era a testa nuda adesso.
Starnutì.
Gli parve di capire che qualcuno gli desse della “puttana”. Però nessuno aveva aperto bocca.
La cassetta nel mangianastri arrivò a fine corsa: si sentì il clic dello stop automatico.
Un colpo di coltello dato con sicurezza tagliò via le corde.
Era libero.
Intorpidito. Era come se un milione di formiche gli corressero lungo le vene.
Guardò i cinque. Erano un numero. Nient’altro. Quei volti non gli dicevano nulla. Mai conosciuti.
Ma evidentemente loro conoscevano lui, altrimenti non si sarebbero presi la briga di rapirlo.
Forse due minuti. Attese che il sangue riprendesse a scorrere normale.
Poi si alzò in piedi.
I cinque erano l’uno accanto all’altro. Volti senza espressione. Non un tradimento: una smorfia o un sorriso sprezzante. Erano lì davanti a lui e c’erano per essere i suoi giudici, questo non era difficile da capire.
La lampadina sopra le loro teste ebbe un sussulto, parve spegnersi, e invece fu solo cosa d’un istante e tornò a illuminare come prima.
Fece per fare un passo e fu allora che ricevette il primo pugno dritto alla bocca dello stomaco.
Cadde in ginocchio.
Fino ad allora non aveva pensato che un pugno potesse abbattere così un uomo.
Piegato su sé stesso rimise anche l’anima.
Quelli lo guardavano. Senza espressione. Non gli fregava un cazzo che vomitasse sulle loro scarpe.
Quando ebbe ripreso fiato, con l’anima spalmata per terra, si rialzò tremante.
E arrivò veloce il secondo colpo.
Cadde con la faccia dentro alla pozza del suo stesso vomito. Ma questa volta buttò fuori solo amari succhi gastrici. Temette di vomitare i polmoni tanto fu forte il colpo ricevuto.
Rimase lungo disteso per un bel pezzo con la faccia immersa nel vomito. Sapeva oramai che non appena si fosse rialzato sarebbe arrivato il terzo e così via.
Attese.
Attese che quelli facessero la prima mossa. Ma niente.
Stavano in piedi davanti a lui, impassibili.
A malincuore si rialzò, anche se avrebbe preferito annegare nel vomito.
Arrivò il terzo colpo, sempre alla bocca dello stomaco.
E arrivò il quarto.
E arrivò il quinto.
Il sesto no.
Quando si rialzò per la sesta volta non fu colpito.
I cinque rimanevano impassibili. Sui loro volti non c’era né un’ombra né una ruga.
Si passò una mano sul cranio rasato di fresco: liscio come una palla da biliardo. Un brivido gli corse lungo la schiena: non ricordava d’essersi mai accarezzato la testa nuda.
Con gli occhi individuò una lama di luce. Doveva esserci una porta accostata.
Doveva raggiungerla?
L’avrebbero lasciato passare?
Mentre decideva il da farsi un conato di acido gli strozzò la gola.
Che aveva mai fatto per meritare quel supplizio, non lo sapeva. E il peggio era che i cinque erano a volto scoperto ma anonimi come altri milioni di persone. Semplicemente lui non li conosceva. Quand’anche fosse riuscito a guadagnarsi la libertà, una volta fuori chi avrebbe denunciato? Dei volti di cui non sapeva un emerito cazzo. Se avessero avuto su una maschera perlomeno avrebbe potuto dirlo, ed invece erano a volto nudo, ben rasati, cinque uomini né giovani né vecchi, cinque uguali ad altri milioni.
Con lentezza avanzò, un passo dopo l’altro.
I cinque non fecero niente per fermarlo.
Quando gli fu di fronte lo lasciarono passare dividendosi in due ali.
Arrivò all’uscio.
Non gli parve vero.
Il sole gli feriva gli occhi. La porta era appena socchiusa. Nessun catenaccio. Nessuna serratura.
In petto il cuore gli perse un colpo. Temeva che da un momento all’altro quei cinque gli sarebbero piombati addosso con calci e pugni. O più semplicemente gli avrebbero sparato alle spalle mentre lui si illudeva di riconquistare la libertà.
Poggiò il palmo della mano sulla porta. Una vertigine lo colse all’improvviso. Vide tutto nero. Un pensiero gli trapanò il cervello: ‘mi hanno sparato in testa per essere sicuri di farmi fuori al primo colpo’. Ma dieci secondi dopo era ancora vivo. Un banale calo di pressione dovuto alla forte emozione.
Nessuno cercava di trattenerlo.
Tremando come una foglia aprì la porta. La luce lo investì.
Percorse un paio di metri sull’acciottolato convinto che non fosse possibile cavarsela così.
Fece altri due metri e altri ancora e nemmeno la sua ombra gli stava alle calcagna.
Era solo come un cane in mezzo alla folla rumorosa e indifferente di Milano.
Respirò a pieni polmoni, felice come mai lo era stato in vita sua.
Si mischiò alla folla e camminò a lungo contento d’essere ancora in piedi.
Lo stomaco gli faceva un male boia. La testa nuda gli restituiva brividi di freddo. Non importava. Era fottutamente vivo.
Raggiunse Piazza del Duomo e lo vide: per la prima volta disse a sé stesso che era davvero un capolavoro. Bellissimo. Una meraviglia.
Nella tasca cucita sul culo c’era una copia del suo ultimo saggio Stalin come Gesù.
Trasse fuori di tasca il volume.
Era bello ai suoi occhi. C’era il suo credo in quelle pagine: cattolicesimo e stalinismo. Giovanni era un cattocomunista.
Scoppiò a piangere. La eco delle note distorte degli Afterhours tornarono a ricordargli che i cinque l’avevano narcotizzato e portato in uno scantinato per… Adesso gli era chiaro: era un avvertimento quello che aveva ricevuto. I cinque lo avevano pestato e pelato proprio come si usava con i condannati a morte nei gulag. Quei cinque dovevano conoscerlo anche se lui non aveva idea di chi potessero essere: loro sapevano che la sua musica preferita era quella di Manuel Agnelli, per questo l’avevano messa su mentre se lo lavoravano.
I cinque erano degli stalinisti puri, senza credo, senza Dio.
Avrebbe dovuto capirlo subito, ma era troppo spaventato mentre quelli gli spaccavano lo stomaco.
Un’ombra lo sommerse.
Comprese perfettamente l’accusa che gli venne rivolta e non osò alzare il capo per guardare negli occhi il suo giudice.
Com’era venuta l’ombra svanì; tuttavia la eco tremenda continuava a picconargli il cervello: “Non sei diverso da un fascista. Cattolico e comunista: non sei diverso da un fascista di merda. Ricordatelo”.
Cadde in ginocchio.
La folla di gente continuò nell’indifferenza a scivolargli accanto.


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