Le cose importanti sono le più difficili da dire. Ed è così che non può che iniziare, sempre, qualsiasi tentativo di resoconto del viaggio in Appennino. Perché l’Appennino – come scriveva giorni fa la ‘povna, sulla soglia del ritorno – non perdona, mai, a nessun costo. Anche quando lo sa fare offrendo all’esperienza tre giorni di compunzione cosmica, dai quali si ritorna (dopo essersi guardati lungamente allo specchio) con in testa, e nella pancia, sensazioni e immagini solo e tanto positive.
Capita così che la classe più casinista (l’anno passato) della scuola (e dunque decimata nel passaggio alla seconda a causa del comportamento) aderisca all’unanimità a una gita che è tutto meno che semplice. E capita che la ‘povna (insieme al collega Pluto, che le toglie per la prima volta in dieci anni l’incombenza di essere sempre e comunque “la professoressa giovane”, e a una ridotta e volitiva rappresentanza di alunni di un’altra seconda) – che quella classe la doveva avere dal principio, poi no, poi dopo, poi forse (e alla quale dunque in ogni caso ha fatto una preparazione abbreviata, durata solo un anno) – se li prenda uno per uno sulle spalle, avviandosi nella successione di quattro treni e cinque cambi, mentre loro la seguono, fiduciosi, allegri e sorridenti, senza colpo ferire. Capita che abbiano voluto avere, tutti quanti, lo spirito giusto, e siano partiti portando non tanto e non solo attrezzatura da gita tradizionale di albergo, ma pantaloni di tuta da ginnastica, che si possano sporcare senza danno, una chitarra, due palloni. Capita che siano rumorosi e conversevoli, come sempre, e lungo il tragitto chiacchierino, cicalando felici il loro acufene permanente; e all’arrivo si gettino sul prato, rotolando. Ma poi siano in grado di ricomporsi alla bisogna, e seguano, sbigottiti e pronti, quanto c’è da partecipare . Capita che si sottopongano al rito di apparecchiatura, sparecchiatura, riassetto e lavaggio piatti col sorriso sulle labbra; e la ‘povna e Pluto arrivino in cucina e li trovino immersi nella schiuma fino ai gomiti, che cantano Le bionde trecce alla chitarra, e ridono, mangiando ininterrottamente mele. Capita che si innamorino (ad ammucchiata, sui letti a castello), siano gelosi, oppure ironici (“Io professoressa non ci vado, in camera da Clorinda, Weber, Piccolo Giovanni, Rebecca, Cirillo Skizzo e gli altri – non mi garba reggere il lume, se non posso partecipare”), o ancora meditativi, e in cerca di consiglio. E in ogni caso sciamino industriosi nella casa di pace fino a notte alta, “come api che fanno il miele”. Capita però che il giorno dopo, come promesso (“abbiamo capito, professoressa: lei si fida e noi sapremo non deluderla, come quella volta che siamo andati a ba…”; “…llare la notte di carnevale e poi il giorno dopo siete venuti a fare compito: era proprio questo che intendevo, Weber”), affrontino la passeggiata di memoria con un entusiasmo di coralità attenta, identificandosi e riflettendo ciascuno nella modalità che gli è più consona, e poi tornino a mangiare un po’ silenziosi e un po’ scossi, e con ancora la voglia di capire. Capita che dopo discutano leggendo i loro biglietti, e che, mentre vociano insieme ansiosi di parlare e ripieni di parole che non sanno trovare la strada delle immagini, si mettano in gioco con compunta confusione. Capita poi che, nell’ora del riposo, ritornino a sciamare come il primo giorno, ma lasciando una zona del silenzio (“Prof., in questa camera ci resta chi vuole stare tranquillo: ché il Taciturno si è addormentato di schianto, e non si sente bene”). Capita che giochino con loro professori a calcio tennis, ballino, cantino, mangino ancora (tantissime) mele. E con lo stesso spirito si arrampichino poi, sulla strada del ritorno, sulla minuscola navetta, e continuino a sorridere in mezzo ai mucchi di bagagli, ai ritardi, alle coincidenze, ancora ai cambi treni. E capita che la ‘povna sbarchi così, infine, insieme a loro, nella città rossa (“che, lo sapete, l’ultima volta che ero qui non vi conoscevo ancora, se non di fama”). E si ritrovi, un’altra volta ancora, in quella topica stazione. Allora, era l’11 di settembre, e la ‘povna vi passava sulla soglia del rientro, dopo quel mare. Allora non sapeva quanto e come la sua vita sarebbe cambiata, così tanto (ed è quello che ha detto a Ohibò, che ha chiamato davanti all’edicola, concedendosi una telefonata di coscienza – ma poi più basta, perché il momento era altro, e a sostenerla bastavano, con quella inconscia consapevolezza di chi sa curarsi e stare attento, anche e soltanto loro). E così la giornata è scivolata via, e ancora treni, e autobus, e autobus (e solo allora un po’ di pioggia), fino all’ultima tappa. Dove la ‘povna ha regalato a questi suoi alunni così belli il suo tributo di memoria. Sono ritornati a casa all’ultimo minuto utile (come al tempo dell’Onda), perché non volevano separarsi. E come l’Onda hanno goduto, silenziosi e consapevoli, ogni singolo momento insieme. E la ‘povna, tornata sulla terra, corre a scuola solo per salutarli, e li trova con il suo stesso sguardo. E nessuno riesce a raccontare più di questo. Le cose importanti sono le più difficili da dire, sempre. E quello che è successo in Appennino, impalpabile e pur denso, appartiene esclusivamente a loro.
“Le cose importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, perchè le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finchè erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perchè vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di qualcuno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare”. (S. King, Il corpo – Stand By Me)