Konstantin Sergeevic Alekseev, meglio noto come Stanislavskij (nome d’arte preso per salvaguardare la rispettabilità della sua famiglia di agiati imprenditori illuminati e mecenati, ma poco disposti ad accettare che il loro nome finisse nelle locandine dei teatri), ha rappresentato la rivoluzione copernicana del teatro contemporaneo, colui che per primo colse la necessità di ripensare ogni aspetto della messa in scena e mise in pratica le nuove idee, anche in funzione di una prospettiva che andava mutando, di fronte al travolgente successo di nuove arti visive quali il cinema, con l’inesorabile trasformazione del teatro da fenomeno di massa ad una dimensione intima e cameristica. Nato a Mosca nel 1863, il futuro Stanislavskij sin da piccolo sviluppò il senso teatrale, stimolato dall’ambiente culturalmente elevato e affinato successivamente negli allestimenti scenici che venivano approntati dai genitori nel piccolo teatro della residenza di campagna della famiglia. Negli anni ’80, un soggiorno parigino, in cui ebbe modo di tastare il fermento della scena teatrale che di lì a poco avrebbe prodotto la cruda rivoluzione verista di Antoine, e l’aver assistito alle rappresentazioni moscovite dei Meininger, altri precursori del teatro di regia, lo convinsero ulteriormente a dedicarsi totalmente al teatro e a portare avanti quel rinnovamento radicale che si faceva sempre più chiaro nella sua mente.
Per diversi anni lavorò come attore in vari teatri di Mosca, cercando la collaborazione con altri giovani teatranti e intellettuali per creare i presupposti per la realizzazione delle sue idee teatrali. Sul finire del secolo, l’incontro con lo scrittore e drammaturgo Nemirovic-Dancenko diede l’impulso decisivo alla sua carriera di riformatore teatrale. I due fondarono nel 1897 il Teatro d’Arte di Mosca e si resero subito protagonisti con la ripresa de Il gabbiano di Cechov, stroncato all’esordio nel 1895, ottenendo un successo clamoroso per le innovative scelte, basate sulla ricerca della verità scenica, più che sull’impressione di realtà. Sempre di Cechov, il Teatro d’Arte mise in scena tutti capolavori che andava componendo in quegli anni, fino all’ultimo, Il giardino dei ciliegi, scritto nel 1904, pochi mesi prima della prematura scomparsa a 44 anni. In quegli anni, avvenne l’incontro con un altro futuro protagonista della rivoluzione teatrale russa, Mejerchol’d, col quale Stanislavskij fece un breve ma intenso percorso comune. Ma il lavoro col Teatro d’Arte ormai lo assorbiva completamente e già nel 1906 la compagnia diede le prime esibizioni all’estero, proponendo Ibsen in Germania.
Fu in occasione di una vacanza in Finlandia, proprio a seguito della tournée, che Stanislavskij iniziò ad elaborare sistematicamente le sue idee sul teatro, verso il superamento della mimesi esteriore del teatro borghese con un “naturalismo spirituale”, in cui l’attore non si limita ad agire, ma vive le azioni. Il metodo, la psicotecnica, chiama in causa non solo la capacità di osservazione e imitazione, ma ogni potenzialità che l’attore ha a disposizione come essere umano: i sensi, la coscienza, l’inconscio, la memoria (o sarebbe meglio dire, proustianamente, le memorie), l’immaginazione, i muscoli, tutto deve concorrere al raggiungimento della verità scenica nella semplice essenzialità dell’azione. Nel percorso attoriale, è fondamentale il Sé magico, l’essere come se si fosse il rappresentato. Per la prima volta, viene organizzato un sistema di lavoro sull’attore che va ben oltre la messa in scena, ma si preoccupa di chiarire, step by step, il percorso atletico e interiore (di Atletica degli affetti parlerà anche Artaud successivamente) che deve guidare l’allievo attore verso il raggiungimento della padronanza tecnica e di una piena coscienza teatrale: la propedeutica, in una sola parola. Queste teorie confluiranno nei saggi La mia vita nell’arte (1926) e Il lavoro dell’attore su sè stesso (1938).
Intanto le produzioni del Teatro d’Arte continuavano a ritmo serrato, con la messa in scena di autori contemporanei russi ed europei; in particolare, nel 1908 avvenne l’incontro con un altro grande innovatore della scena, il britannico Gordon Craig, per un epocale Studio sull’Amleto, culminato nella messa in scena del capolavoro shakesperiano nel 1911. I rapporti con Nemirovic Dancenko iniziarono a deteriorarsi, a causa della prospettiva ormai apertamente antinaturalistica che Stanislavskij voleva dare al suo teatro. Nel 1917 si arrivò alla rottura durante le estenuanti prove per la messa in scena de Il villaggio Stepancikovo di Dostoevskij. Successivamente, Stanislavskij fu assunto dal Bolshoj come preparatore scenico dei cantanti, esperienza che sarà di base alle regie operistiche curate negli ultimi anni della carriera, dopo il definitivo abbandono del Teatro d’Arte nel 1928. Intanto, la compagnia, dopo aver creato un distaccamento a Praga, tra il 1922 e il 1924 fu protagonista di fortunate e seminali tournèe in Europa e negli Stati Uniti. Nominato artista del popolo sovietico, nonostante la sua scarsa inclinazione per ogni ortodossia, Stanislavskij passò gli ultimi anni della sua vita curando, oltre alle regie operistiche per il Bolshoj, l’attività del suo laboratorio di formazione per attori e registi, dove riprese la collaborazione con Mejerchol’d. Morì a Mosca nel 1938, pochi mesi dopo aver dato alle stampe Il lavoro dell’attore su sé stesso, il saggio che sarà alla base delle fortune universali del suo metodo.
Come detto, l’esperienza teorica e pratica di Stanislavskij rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana del teatro, in quanto pone al centro, al posto di un’impressione di realtà logorata e ridicolizzata dalla superiorità delle nuove forme di espressione visiva, la riflessione dell’attore su sé stesso e sul personaggio, in una ricerca interiore ed atletica che porta l’attore ad abitare dimensioni fisiche e metafisiche fino ad allora pressoché inesplorate. Il “metodo Stanislavskij”, fondato sul dialogo tra l’attore e il suo sé, apre la stagione dei grandi riformatori, tutti accomunati nella volontà di ritornare alle origini sacrali della disciplina teatrale, contro la deriva omologante e diversiva del teatro borghese. Senza dimenticare che il pioniere russo del teatro contemporaneo ha abbondantemente varcato i confini della scena teatrale, esercitando un notevole influsso sulla formazione di generazioni di attori cinematografici, in particolare dopo la fondazione dell’Actors Studio di New York nel 1947, profondamente ispirato alla lezione di Stanislavskij.