E' uscito qualche mese fa per la casa editrice londinese Black Dog Publishing il libro Stanley Kubrick: New Perspectives, una collezione di saggi sulla realizzazione dei film di Kubrick scritti da vari ricercatori universitari. L'elemento che accomuna i saggi è l'utilizzo dei documenti di produzione custoditi allo Stanley Kubrick Archive (da qui in avanti: SKA) presso l'Università delle Arti di Londra. Le "nuove prospettive" del titolo sono quindi quelle che è possibile raggiungere grazie allo studio dei copioni, dei piani di riprese, del carteggio con i collaboratori, delle foto di scena e così via.
Ne segue che questo libro rappresenta il primo autorevole tentativo di rinnovare lo studio dei film di Kubrick, dopo i primi discutibili esiti dello Stanley Kubrick Archives della Taschen, interessato più a suscitare ammirazione che riflessione, e del catalogo della mostra di Francoforte che, pur migliore, soffriva di una certa discontinuità e minor incisività, a causa probabilmente di una prospettiva meno distanziata.
Anche questo libro, come è inevitabile per ogni raccolta da più autori, ha il difetto di presentare saggi la cui qualità risulta discontinua, ma il livello medio è sicuramente alto, con alcuni contributi niente meno che illuminanti.
Quasi tutti i saggi si concentrano su un film in particolare, ad esclusione del primo che si occupa delle fotografie scattate per la rivista Look e dei seguenti due che hanno una prospettiva trasversale.
Cominciando proprio da "A portrait of the artist as a young man: the influence of Look magazine on Stanley Kubrick's career as a filmmaker," Philippe D. Mather, autore dell'ottimo Stanley Kubrick at Look Magazine, riassume qui la sua analisi delle fotografie del giovane Kubrick ma, pur ribadendo le critiche volte agli autori che leggono quegli scatti come anticipazioni di temi e inquadrature dei film successivi (leggi Enrico Ghezzi e soprattutto Reiner Crone), qui sfortunatamente finisce per compiere lo stesso errore. Sembra come se la possibilità di sfogliare le dozzine di provini custoditi all'Archivio abbia offuscato la capacità critica di Mather e lo abbia condotto sulla via del facile giochino di similitudini. Peccato.
Il secondo saggio, "Complete total final annihilating artistic control: Stanley Kubrick and post-war Hollywood," è scritto da Peter Krämer, un autore che in pochissimo tempo è diventato il mio kubrickista preferito. Autore di tre monografie pubblicate dal BFI – due nella serie Classics (Dr. Strangelove e 2001: a Space Odyssey) e una nella serie Controversies (A Clockwork Orange) – nonché di una decina di validissimi articoli accademici, Krämer meriterebbe un post a parte per il suo ruolo di studioso dello Stanley Kubrick produttore: interessato a documentare le circostanze storiche in cui i film di Kubrick furono prodotti e a evidenziare l'unicità del regista all'interno del sistema-Hollywood, Krämer è qui chiamato a introdurre la figura di Kubrick come artista fieramente indipendente e a ripercorrerne l'ascesa dalle prime opere a bassissimo budget fino alle vette delle classifiche dei film di maggior successo economico negli anni '60. E lo fa con una competenza, tanto di Kubrick che del cinema americano, ammirevole e invidiabile. Merita due righe il titolo del suo saggio: è un estratto da un memo scritto da Kubrick dopo la proposta della Columbia per un contratto che prevedeva il finanziamento di due film oltre Il Dr. Stranamore; Kubrick sceglierà di rifiutare l'accordo e scriverà a se stesso, come monito perenne, di voler "un completo totale definitivo distruttivo controllo artistico, soggetto solo all'approvazione del budget e alla scelta dei due attori principali." Kubrick vedeva se stesso come una Bomba-H lanciata su Hollywood. Applausi.
Il saggio "An alternative New York Jewish intellectual: Stanley Kubrick's cultural critique" di Nathan Abrams punta a reintrodurre l'elemento ebraico nella lettura dell'opera di Kubrick (con buona pace di Frederic Raphael, verrebbe da aggiungere). Concentrandosi principalmente su Lolita e Il Dr. Stranamore, Abrams individua una sensibilità marcatamente ebraica nello humour kubrickiano, osservando però come essa sia stata mitigata e resa mainstream dalla preoccupazione da uomo d'affari conscio che il suo film ha l'obbligo di far profitto al botteghino e che può farlo solo stemperando certi estremi per parlare a un pubblico più ampio possibile. Arricchito da citazioni dagli articoli dalle riviste newyorkesi d'epoca e dal carteggio a volte contrastato con altri artisti ebrei per così dire più radicali di Kubrick, il saggio risulta assolutamente interessante e prezioso.
Richard Daniels, archivista capo dello SKA, offre in "Selling the war film: Syd Stogel and the Paths of Glory file" un interessante resoconto della macchina pubblicitaria della United Artists alle prese con la promozione di Orizzonti di Gloria. Osservando i documenti contenuti in una scatola marchiata col nome di "Syd Stogel," Daniels ci racconta come il pubblicista della UA fosse interessato soprattutto alla burrascosa personalità di Timothy Carey (che finse il proprio rapimento all'insaputa di tutti e fu licenziato in tronco da James B. Harris), alla presenza di Christiane Harlan, sola donna in mezzo a cento uomini (ottimo materiale promozionale) e ovviamente a Kirk Douglas, la star di Hollywood che sapeva parlare correntemente tedesco e garantiva enorme visibilità alla produzione. Ne risulta il ritratto di un film gestito, nella parte di marketing e promozione, interamente dallo studio, da Harris e mai da Kubrick, concentrato questa volta solo ed esclusivamente sugli aspetti creativi del film.
Fiona Radford, con "Having his cake and eating it too: Stanley Kubrick and Spartacus," afferma che il film ha avuto un ruolo più importante nello sviluppo del regista di quanto comunemente si crede – e di quanto lui stesso sia stato disposto ad ammettere. Sono anche io dell'idea che Spartacus rappresenti un punto nodale nella carriera di Kubrick, tuttavia questo saggio è un po' sbrigativo, a tratti confuso, e non colpisce l'argomento a fondo.
Karyn Stuckey, un'altra archivista dello SKA, si cimenta con la ricostruzione della complicata produzione di Lolita, prima per riuscire a ottenere una sceneggiatura filmabile da Nabokov e poi per far passare il film girato attraverso le strettissime maglie del sistema censorio americano. Alla fine del lungo e articolato "Re-writing Nabokov's Lolita: Kubrick, the creative adaptor" risulta chiaro un punto fondamentale: che Kubrick, nonostante all'epoca avesse sminuito l'importanza del cambio di età della sua ninfetta dai 12 anni del libro ai 14 del film, ha davvero depotenziato l'elemento di maggior scandalo del romanzo di Nabokov, ma l'ha fatto non (o non soltanto) per assecondare la censura, quanto soprattutto per realizzare una commedia di costume. La Lolita di Kubrick, argomenta la Stuckey, è stata plasmata nell'adattamento fino a diventare una realistica eroina della storia d'amore: era infatti necessario un personaggio maturo e sfacciato abbastanza da divenire agente narrativo e non il mero oggetto del desiderio perverso di Humbert, come più probabilmente appare nel romanzo. Come con i lavori di Krämer, un altro ottimo uso dei documenti di produzione allo scopo di capire le intenzioni di Kubrick dietro il suo lavoro. Altro che i pipponi dei critici (dovevo dirlo, perdonatemi, lo stavo trattenendo già da troppi paragrafi).
A Lolita e alle sue lunghe battaglie contro la censura americana è dedicato un altro saggio, "A constructive form of censorship: disciplining Kubrick's Lolita" di Daniel Biltereyst. Con la trafila di lettere, cablogrammi, telefonate tra Kubrick, Harris, Geoffrey Shurlock della Motion Picture Association of America, John Trevelyan del British Board of Film Censors e del mediatore cattolico Martin Quigley, in un tripudio di accuse, minacce, pentimenti, discrediti, rassicurazioni e sgambetti, si ottiene un effetto di accumulo stancante e si capisce perfettamente la frustrazione che traspare da quella dichiarazione di Kubrick degli anni '70: "Se avessi saputo da subito quanto severe sarebbero state le limitazioni [che ci hanno imposto], probabilmente non avrei fatto il film." Un uso diverso del materiale dello SKA, ugualmente meritevole: documentare con esattezza la storia produttiva di un film.
Prendo l'occasione di questo saggio su Lolita per dire che gli autori di questo New Perspectives utilizzano materiale non solo di provenienza SKA ma anche di altri archivi storici, ad esempio quello presso la Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, indispensabile per la ricostruzione del rapporto con la censura, o le Kirk Douglas Papers donate al Wisconsis Center for Film and Theater Research. Insomma, tutti gli autori sanno fare il loro mestiere.
Tornando ai saggi, Mick Broderic, nel suo "Reconstructing Strangelove: outtakes from Kubrick's cutting room floor," descrive una serie di scene tagliate dal montaggio finale del Dr. Stranamore per dimostrare quanto Kubrick non avesse paura di scartare elementi importanti dello script e intere sequenze già girate per migliorare e affinare il proprio film, raggiungendo una grande economia narrativa e coerenza estetica, anche a scapito di quello che era stato il suo interesse iniziale. In fase di montaggio, Kubrick ha infatti tagliato numerose scene che contenevano i passaggi di dialogo più politici, presi talvolta parola per parola dai testi di strategia termonucleare che aveva letto per documentarsi. Il saggio va inoltre a smontare parte della mitologia stranamoriana, quella che riporta tre macchine da presa sempre rivolte su Peter Sellers per catturarne le mutevoli improvvisazioni, e kubrickiana, con i numerosi ciak per ogni scena. In realtà, i documenti dello SKA attestano l'uso di una sola macchina, raramente due, e di una media di ciak assolutamente in linea con le produzioni hollywoodiane dell'epoca, dei quali Kubrick decideva poi di stamparne al massimo due. Dall'elenco di scene tagliate manca, per motivi di spazio, la più famosa: la battaglia a torte in faccia; sarà molto probabilmente inclusa nel libro interamente dedicato alla lavorazione del Dr. Stranamore che Broderic sta scrivendo – una gran bella notizia, che salutiamo con gioia e con la speranza che il suo futuro resoconto sia un po' meno piatto di quello che fa in questo saggio.
Robert Poole, in "2001: a Space Odyssey and The Dawn of Man," racconta l'evoluzione del prologo preistorico del film, citando dai copioni conservati allo SKA. Il saggio procede senza troppa convinzione e senza altra ambizione che una mera documentazione. Poiché in parte l'argomento era stato coperto dal libro di Clarke The Lost World of 2001, il risultato non è tra i più sconvolgenti.
Il secondo saggio su 2001, "Speculative systems: Kubrick's interaction with the Aerospace Industry during the production of 2001," si concentra sul design futuribile del film. L'idea interessante dell'autrice, Regina Peldszus, è di considerare il film non solo come una produzione basata sulle previsioni dell'industria aerospaziale statunitense, i cui esponenti vennero assunti come consulenti, ma come un vero "case scenario" in cui progetti e ipotesi della NASA venivano sottoposti alla prova pratica grazie alla accurata simulazione cinematografica kubrickiana. Analizzando le lettere contenute allo SKA, l'autrice rivela come lo scambio tra Kubrick e gli scienziati della NASA sia stato assolutamente bilaterale, con idee suggerite e adottate da entrambe le parti. Non avessimo interrotto la corsa verso lo spazio, probabilmente avremmo davvero usato astronavi simili a quelle di 2001. How cool is that?
Peter Krämer torna con un altro saggio, "What's it going to be then, eh? Stanley Kubrick's adaptation of Anthony Burgess' A Clockwork Orange." Krämer analizza con estrema perspicacia sia le ragioni della scelta di Arancia Meccanica come ripiego dopo il fallimento del progetto Napoleon, sia la qualità dell'adattamento del romanzo di Burgess. Se Kubrick sceglie di abbassare la violenza scioccante del libro (Alex non ha più 15 anni, non stupra bambine di 10, uccide meno persone, e così via), nella conclusione della storia si riserva di essere meno diretto ed esplicito di Burgess: mentre nel romanzo Alex torna ad essere violento come prima (penultimo capitolo) per poi rinnegare tutto e crescere come un normale individuo pienamente integrato nella società (ultimo capitolo, eliminato nell'edizione americana del libro), Kubrick mantiene ambigua la risoluzione del suo Alex, lasciando allo spettatore il compito di decidere in quale modo sia "guarito, eccome." Un saggio più interpretativo rispetto agli altri, ma condotto sempre a partire dall'osservazione attenta dei documenti e quindi a bassissimo rischio castroneria.
Tatjana Ljujič, in "Painterly immediacy in Kubrick's Barry Lyndon," utilizza i documenti dello SKA, in questo caso le riproduzioni dei quadri presi come riferimento visivo da Kubrick in Barry Lyndon, per sbugiardare le teorie di alcuni critici sull'impostazione storico-estetica del film. Le incongruenze temporali del film, ossia l'uso di un brano ottocentesco di Schubert o di alcuni quadri del XIX secolo presi a modello per Lady Lyndon, non servono a Kubrick per fare un discorso critico sulla (ir)rappresentabilità di un tempo passato sempre mediata dal presente (leggi: pippone da critico), ma semplicemente sono decisioni prese anteponendo la chiarezza emotiva dei personaggi alla sterile aderenza storica. Le fonti pittoriche settecentesche sono state utilizzate dal reparto scenografico; per tutto il resto, ossia per la drammatizzazione o se vogliamo la direzione degli attori, Kubrick è stato guidato da opere più romantiche ma, per usare le parole della Ljujič, "il motivo dietro le sue scelte anacronistiche non risponde a un desiderio di relativizzare il tentativo del film di essere storicamente autentico, ma piuttosto alla volontà di catturare visivamente il complesso mondo interiore dei personaggi." D'altra parte, proprio non esiste il senso del tragico nelle opere del '700, i cui ritratti sono emotivamente bidimensionali. Kubrick aveva già risposto a questa critica in un'intervista con Michel Ciment ma è bello veder confermata questa sua idea con uno studio approfondito delle fonti. E' così che deve essere usato lo SKA, per tentare di ritrovare l'idea originaria che ha avuto Kubrick, spesso ormai sepolta sotto quintalate di carta da critici. Assumerei subito la Ljujič per un libro di mille pagine che illustri tutti i dipinti copiati da Kubrick nelle inquadrature di Barry Lyndon, che questo suo saggio mi sa di antipasto.
Anche a Barry Lyndon sono stati dedicati due saggi, ma il secondo, "From Thackeray to the troubles: the Irishness of Barry Lyndon" di Maria Pramaggiore, è al contrario molto deludente nonostante l'autrice abbia già pubblicato una monografia sul film. Come prima cosa la Pramaggiore commette un errore quando dice che la decisione di girare il film in Irlanda fu presa in fretta e furia un mese prima di iniziare le riprese: prendendo come prova una lettera di Jan Harlan del giugno 1973, dichiara che Kubrick si convinse ad allontanarsi da casa solo di fronte all'impossibilità di trovare location adatte nel sud dell'Inghilterra. Non è così: ci sono interviste a Marisa Berenson dell'aprile 1973 e articoli di Variety del maggio di quell'anno che annunciano la produzione di Barry Lyndon in Inghilterra, Irlanda e Europa continentale. Secondariamente, più della metà del saggio è dedicato al tono melanconico del film, derivato dalla tradizione irlandese: un'idea piuttosto inutile anche quando non scade, come in realtà fa di frequente, nell'interpretazione totalmente soggettiva. Non è questo lo scopo di questo libro.
Catriona McAvoy, in "Creating The Shining: looking beyond the myths," cerca di smentire le leggende attorno al regista a partire da nuove interviste svolte per la sua tesi di dottorato. Scegliendo Shining come "case study" e citando soprattutto la biografia di Baxter e il libro di Raphael, la McAvoy sciorina i soliti aggettivi – ossessivo, tiranno, despota, passivo aggressivo – e li contraddice uno per uno, spaziando dalla pre-produzione alle riprese fino alla post-produzione e alla distribuzione del film grazie a contributi di Jan Harlan, Katharina Kubrick, la sceneggiatrice Diane Johnson e l'aiuto regista Brian Cook. Il tono però è piuttosto piatto e in definitiva molto poco incisivo. E' sempre bene ripetere che Kubrick era in realtà un regista che ascoltava il parere di ogni singolo collaboratore, che teneva ogni idea in grande considerazione e che spesso finiva per usare i suggerimenti che gli venivano offerti, tuttavia forse un saggio accademico non è il miglior veicolo per parlare del carattere di una persona.
Pratap Rughani, documentarista e fotoreporter di guerra, si interroga, nel saggio "Kubrick's lens: dispatches from the edge," sul perché Kubrick abbia mantenuto una prospettiva rigorosamente americana sul racconto della guerra in Vietnam. Se anche nelle interviste rilasciate all'uscita del film aveva dichiarato di considerare il Vietnam una "guerra manipolata dai falchi intellettuali che cercavano di alterare la realtà come un'agenzia pubblicitaria," Rughani scrive che nel film non v'è traccia di un discorso critico su questa rappresentazione. Ad esempio, non viene mai preso in carico il punto di vista dei Vietnamiti. Una nota di Kubrick rinvenuta nello SKA sembra in effetti documentare questa intenzione: "Ci dovrebbe essere un personaggio vietnamita che (rappresenti) riassuma la posizione dei V -- siamo completamente senza un punto di vista dei V." Eppure, a giudicare dal film finito, Kubrick deve aver scelto di non seguire questa strada. Pur ponendo una domanda interessante, Rughani non sa come trovare una risposta e il suo saggio risulta tronco.
Con gli ultimi due saggi continua la parabola qualitativa discendente. Karen A. Ritzenoff, in "UK frost can kill palms: layers of reality in Stanley Kubrick's Full Metal Jacket," si concentra nella prima parte su come Kubrick abbia realizzato un film ambientato ai tropici nei dintorni di Londra. Dopo aver parlato brevemente del colpo di fortuna di aver trovato la fabbrica abbandonata a Beckton e dell'importazione delle palme dalla Spagna, la Ritzenoff prende una piega interpretativa sulla rappresentazione della guerra da parte di Kubrick, senza più fare alcun riferimento al materiale d'archivio, ridotto quindi a un mero pretesto per parlare d'altro.
Lucy Scholes e Richard Martin si occupano delle scatole che custodiscono il materiale relativo a Eyes Wide Shut nel loro saggio "Archived desires: Eyes Wide Shut:" un paio di pagine di copione dalle centinaia e centinaia scritte da Frederic Raphael, le migliaia di fotografie scattate da Manuel Harlan in giro per Londra alla ricerca di posti simili a New York, i disegni di Chris Baker per visualizzare il sogno di Alice, idea poi scartata, e i poster proposti da Kubrick con le facce di Cruise e Kidman come vuote maschere, poi cassati dalla Warner. Il saggio era partito ricordando il triste destino critico contro cui era andato incontro il film alla sua uscita nel 1999, ma il materiale dello SKA presentato nudo e crudo e una manciata di citazioni da Freud non riescono da soli a controbattere a quelle superficiali recensioni – se questo era lo scopo del saggio, che in realtà pare più il lavoro di due persone che, invitate a dare un'occhiata all'Archivio, si sono limitate a indicare quelle tre o quattro cose che più hanno colpito il loro interesse.
Nonostante la qualità altalenante, i pregi di questo Stanley Kubrick: New Perspectives sono indubbiamente maggiori dei difetti e lo scopo di indicare una nuova via alla critica kubrickiana è sicuramente raggiunto. Un plauso va quindi ai curatori, che non casualmente sono tra gli autori degli interventi più incisivi: Tatjana Ljujič, Peter Krämer e Richard Daniels. Accompagnano i saggi, come avete visto dalle foto, riproduzioni dei documenti utilizzati nel testo e una manciata di foto di scena inedite.
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