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“Stanze del nord” di Federica Galetto

Creato il 19 gennaio 2013 da Viadellebelledonne

stanze nord VDBD

Leggendo Stanze del nord siamo immediatamente trasportati all’interno di due perimetri concentrici, la casa e il paesaggio, quasi due trincee entro le quali lasciarsi andare ad una solitudine invitante, ad una clausura volutamente inviolabile che nello stesso tempo si rivela essere attesa di un prodigio e dove quel prodigio si rivela non essere altro che la scrittura (o la riscrittura di sé).
Entriamo dunque. Siamo dove totalmente assente è l’ordinario. Ogni pur piccolo elemento è visto con acutezza e partecipa della vita della poetessa, condivide il suo percorso e le sue folgorazioni nel serrato confronto con la natura, con il passato, con gli intercalari lasciati scoccare come alleluia in un santuario così echeggiante dei propri spasimi da farle scrivere di punto in bianco che cosa fai/ sulle guglie del mio capo.
La casa s’adorna del vissuto, è disciplina. Nel suo silenzio viene popolata da presenze confortanti, come quando la Galetto scrive al tavolo dell’angelo che mi ascolta. Così, nelle camere distanti/ nei corridoi spinti al fondo delle ragioni il suo intuito si dipana in un continuo interrogarsi, soccombere e rianimarsi.
Le stanze posseggono la luce soffusa dei timori e al contempo sono culla, sono accoglienza per ogni dopo. Nelle stanze del nord si offuscano i toni; voluttà del non colore dove il tema del dolore sembra concedersi spazio e vita da esaudire.
Eppure in questo vivere appartato tutto è contenuto in una dimensione di comunanza. L’io poetico si nutre di questo pascolo domestico con venerazione, ama le infinite minuzie e le vastità ariose che da lì si prospettano, è un ascolto continuo, inesauribile che attraversa i giorni e le notti, inscindibile dal respiro.
E dentro questo mondo di pergamena il nord riverbera in ogni lato la sua luce, è un diamante ed anche forse è il segreto di tutta un’esistenza. Qui e non altrove pare dire la Galetto.
Il paesaggio a volte appare privo di sbavature di sole, provoca la stessa sensazione di un’abluzione nel gelo, un rito compiuto per il sacro dovere di unirsi al tutto. La poesia all’aperto cresce nella tessitura fiamminga di una folla di creature, di vegetali e minerali (acque, siepi, rovi, fiori, linee di colline, filari, alberi). Tutto si doma nel silenzio, si cattura con estrema lucidità. Anche qui, come nelle stanze, il dolore ascende, sconfina da un iniziale segreto per intestarsi ogni altra emozione ma nello stesso tempo sembra assumere i toni di un ringraziamento. Avverte se stesso come forza propulsiva e meditazione necessaria. La bellezza insomma che si conquista tra acerrime fatiche e che fa dire alla Galetto con un verso terso e vivido la sera e la mattina m’incomincio al mio/ sterrato senza voci.
Il paesaggio molto spesso è la neve ma anche la rosa più ardente, le cose scivolano parallele come le pene e le gioie che ci portiamo dentro, ma in entrambi i casi in questi versi gli intrecci delle speranze e delle sofferte verità mantengono comunque una loro grazia sia nella lividezza che nella limpidezza di mattini vissuti sotto il peso inamovibile della realtà.
In effetti l’intento è la reinvenzione della realtà. Leggere: Mele perfette per far tiare. Così all’interno come all’esterno, nei lati spogli e disarmati, negli angoli disattenti, nella crudezza della luce, lungo minime striature di legno, nelle foglie e nei voli improvvisi di creature vogliose di vita, (tortore, corvi, cigni, persino lucciole, falchi, conigli) nella distanza dalla pace, dall’indifferenza, negli anni senza un saluto, in tutto quello che è lasciato trapelare appare un dettato prorompente, una scintilla luminosa che sprigiona una sorta di propria via alla felicità.
E non esiste una sola riga in cui non sia presente una forma di generosità, l’offerta di sé, di attimi nei quali assimilare, narrare, condividere. Come quando con perfetto equilibrio sa darsi all’assolutezza di un compito scrivendo imparare a distinguere vero e falso/ solo guardando l’erba.
Lo vediamo, lo impariamo procedendo, le parole come le immagini si sovrappongono, si intersecano, collidono o ruotano in accordo nella stessa riga, collages di cose distanti che si cercano, che solo amalgamandosi riescono a svelare l’animo di chi le ha riunite mostrandone la profondità e l’intensità.
E poi: Chi mai sapeva chi fossi/ Chi mai sapeva delle mie trecce. Durezza. Non altro. Da cui nascono pregio e misura, nascono ritmo, essenzialità, unicità necessaria per trionfare sulle anonime pantomime dei molti il mio nodo s’annoda/ancor più stretto alla polvere/ nelle pieghe ruvide di un silenzio/ caparbio/ Soffoco piano/ ma non lascio volar via/ quel laccio/ Ché si dice la vita/ è fatta di certezze.
Poi d’improvviso, dopo il soffocare, dopo la pena che non dà tregua, in questa vita raggrinzita d’esasperato oltre le stanze, oltre il fioco confine dell’orizzonte ecco che tutto si apre, si scioglie, sconfina in una perfetta sintesi di elevazione.
E un solo verso è sufficiente a scaldare l’intero, quel suo farsi preghiera, quel chiedere un getto di pace nel buio che irresistibilmente riluce su tutto.

  Vera D’Atri

La poesia di Federica Galetto si dipana in un universo esistenziale costituito dai temi di un rapporto affettivo complesso e variegato; di un anelito, seppure destinato allo smacco, all’assoluto; di una costante e fruttuosa ricerca di sé, dei caratteri della propria interiorità e orgogliosa individualità; di un’affollata presenza di creature animali e vegetali che acquistano talvolta sembianze umane; di una implacabile e salvifica urgenza di scrittura.
Il rapporto con l’altro per eccellenza, con chi non di rado è chiamato amore, è fonte di attesa trepidante e ansiosa:
“>assolta come sposa resto/sui gradini della chiesa/ad aspettare il tuo arrivo

“ti leggo e ti sento arrivare come il raggio/del mattino sui colli

“t’aspetto come s’aspetta un tuono  in Creata e fatta a immagine;

mentre riaffiora il ricordo dello stupore di scoprirsi innamorati e disegnare progetti di felicità in Desto le cose:

“>di anni che di venti ne avevamo/e cieli ci ospitavano gravidi/dei figli nostri sognati la notte/sulle panchine del parco e nei viali

“>Ma la complessità del rapporto amoroso si conferma in Riverberi di sbeccati contrasti, dove le opposizioni diventano cirri densi di diversità in abisso mentre in Dicotomie sterili nei contrapposti si evidenzia la lacerazione, lo scontro, la sterilità comunicativa. Una sterilità che viene ribadita nel titolo fortemente icastico Hai cosparso di sale la mia terra con conseguenze che l’io poetico non esita a denunciare:

“>senza speranza non sorrido/né apro al mattino la porta

“>Il desiderio di essa comunque non viene meno, pur nel riconoscimento degli enigmi dell’attrazione/repulsione, tanto che qualche verso dopo si ammette:

“>Era tempo di distendersi ad aspettare ancora/che la felicità sgorgasse da quelle rocce fragili

“>anche se l’amore non sazia/non sazia/non sazia! riempie caverne/case di marmo nella lirica Nei polsi deboli  dove il sentimento è riconosciuto incapace di fondere davvero due creature, perché le individualità restano spiccate e irriducibili. Tanto che nella penultima poesia della silloge, Te l’ho detto, l’io lirico, attraverso un lessico insolitamente piano e dimentico di ogni ermetismo, si offre al suo amore come casa/ostia/cibo per il cuore acquistando il tono dell’avvertimento e dell’esortazione in una dignitosa affermazione di un sé perché è spirito di carne/ o carne di spirito e si nutre d’abbagli e di gusci/pieni di quel nascondersi per farsi vedere.

“>Come a sottolineare che la diversità non può venire colmata ma deve essere conosciuta e rispettata: esclusivamente su tali premesse è possibile la declinazione gratificante degli “amorosi sensi”.

“>Se il rapporto con il partner può essere problematico, quello con la natura solitamente offre pozzi di sollievo come in Altri inverni verranno e tutta quanta la raccolta ospita una miriade di creature, specialmente alate: tortore colombe gazze libellule corvi cigni tordi farfalle meduse conchiglie cicale leprotti fagiani, ma accoglie anche alberi e fiori, in cui pare che la flora acquisti sembianze e comportamenti umani e l’autrice si chiede se parlano le ortensie alle viole/come distese sul letto a confessare (Mutazioni).

“>Se l’ascolto da parte di Dio non è assicurato Perché non sei rimasto in ascolto Dio/non volevo che acquiescenza sul male/un getto di pace nel buio/ossia speranza intricata e ferma, è invece salvifico, seppure faticoso,  l’approdo alla scrittura:

“>Mi schianto di versi e di freddo/per sapere ancora di essere intera in E scendo e in Me ne curo poco, non è retorico il chiedersi Ma cosa farei senza pane da scrivere.

“>Nelle Stanze del nord, dove si offuscano i toni decalcificando muri e giardini immobili il linguaggio, parallelamente alla complessità e profondità dei temi trattati, appare spesso aspro, originale, prezioso ed ermetico; ma dove la tensione esistenziale s’allenta, cedendo il passo a soste e respiri d’armonia, il lessico diventa piano, comprensibile, quasi quotidiano. Come un gomitolo che si dipana lentamente, sciogliendo nodi cammin facendo, e del quale la poetessa sa tenere ben saldo il filo e governarlo a dovere.

“>Del resto, come non ritenerla capace, se lei, come confessa, sa persino ammansire colombe?

Maria Gisella Catuogno

TE L’HO DETTO
Te l’ho detto che sono
Casa
Ostia
Cibo per il cuore
Te l’ho detto che mi lascio

andare ai pettirossi soli

mentre ascolto il calore

Te l’ho detto che il mio

Corpo
è spirito di carne

o carne di spirito

annegato nei semi di tiglio

Che mi nutro di abbagli e di gusci

pieni di quel nascondersi per farsi vedere

Avresti mai potuto immaginare una donna

che parla con ciò che non vede

e ascolta ciò che non sente

fra le tue frette

Te l’ho detto che mi sento di non sentirmi

né tocco ciò che mi tange

amore, te l’ho detto

AL LAVATOIO DI UN GIORNO MUTO

Sono stata al lavatoio di un giorno muto

Sotto i porticati della imprecisa luce

Sulle torri dei venti siberiani

Dove le folle addomesticate dell’inverno

vigilano

Bisbigliando brina

Ma i colossi verdi che sono alberi

ritengono ancora trine di foglie

e coltri di gemme addormentate

Domani avrei il dono dell’eloquenza

se fossi io più mite e paziente

e quello dell’amore

se solo sapessi mostrare

avverbi negati

parole ingoiate

e versi distratti

e sere nel letto a gioire di niente

Ma mai si lede la verità nel suo dire

appoggiata ai rami di faggio e sui fili

tra coperte di sole appannato e rintani sicuri

a cadere mi trovo e dondolo

a cucchiaio risplendo sui passi

efferate le orme trafiggono

le porte

le strade

le pietre dei viali

s’accorcia un ritratto imbronciato

nei segni di carta

che vola alle sue cadenze di mento e mascella

Sei tu ma mi sembra che estranea

questa rassegna di labbra e capelli

induriti alla voce profonda del cruccio

s’interroghi.

NOTE BIOGRAFICHE

Federica Galetto nasce a Torino nel 1964. Poetessa, scrittrice, traduttrice, appassionata di lingua e letteratura inglese e americana, scrive su un blog letterario “La stanza di Nightingale”http://lastanzadinightingale.blogspot.com/
sul quale pubblica testi poetici di autori italiani e stranieri che traduce personal-
mente. Nel luglio 2010 pubblica per i tipi di Lietocolle Editore la sua prima raccolta poetica “Scorrono le cose controvento” e nel 2011 la sua prima raccolta di Poesie in lingua inglese “Ode from a nightingale”, Masque Publishing, l’e-book “Silent is the House” (bilingue, Inglese-Italiano), Errant Editions 2011.
Sue poesie, racconti e traduzioni sono stati pubblicati su diverse riviste e blog letterari, antologie edite da Perrone Editore, Mondadori, Lietocolle, fra le altre.Vincitrice del Premio “La vita in Prosa” edizione 2011 e Verba Agrestia 2011. È Direttrice di collana della Errant Editions Small digital Publisher. Vive e lavora in Piemonte, in un piccolo villaggio del Monferrato.



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