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Burton si copre sotto la scure di un goticismo glorificato ad unica essenza disagiata e possibile, scendendo nella valle dove il sole non si rivolge agli uomini. Il famelico Burton, massimo erede “controverso” dell’atmosfera circense felliniana (tanto che le dichiarazioni di Ferretti vedono una presunta comunanza discutibile con il regista più vernacolare e chiaro di generazioni tristemente morte,-e non solo metaforicamente-), bambino che si gingilla nell’atipicità dei cimiteri, lancia un grido di dolore grondante sangue irreale da coltelli affilati di rubini ed appuntiti che si rinviene nell’immobilizzata “Pietà”, finale con un siero plasmatico rossastro che accentua l’immobilismo. I goccioloni che hanno solcato le nostre guance vivide di quel piccolo film “Big Fish” e che forse puzzavano, debordanti, del nostro egocentrico e personale sguardo su una vita soggettiva con chiaroscuri di esperienza comune, sono sostituiti da una poetica di morte che sembra affiorare da una considerazione tragica del mondo circostante (che, come ha sempre detto, ispira il dipinto burtoniano). Ultima, ma centrale nota, la bravura dell’ensemble attoriale: Johnny Depp appare un instabile ricercatore di una vendetta che lo spinge alla follia quando si rivolge, impietrito, al suo amico, il rasoio con manico d’argento, in cui si rinchiudeva, come in un diario, ogni traccia del suo passato; Helena Bonham Carter è il chiarore di una donna sbilanciata, vera essenza del film. C’è Sacha Baron Cohen, ma Alan Rickman lo distrugge con uno sguardo. Credo che tra il Tim Burton di questo “musical-horror”, sicuramente debordante anche a livello sonoro, e quello di “Alice in Wonderland”, che ho comunque apprezzato, la misura sia incolmabile. E forse, “Sweeney Todd” è il punto del non-ritrono o meglio l’esito drammatico del vecchio Tim, ora più empatico con i fanciulli e meno dirompente. E il barbiere è il suo ultimo vero freak drammatico, il freak della leggenda e del testo anonimo, per lasciar spazio al freak socializzato del Cappellaio Matto, che da Lewis parte all'infinito negli adattamenti del libro. Elfman lo accompagna nella nuova fase, ma a portarlo per mano è quella Disney che lo fece fuggire e oggi, miliardo di dollari con “Alice”, lo richiede con insistenza.
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