- Durata: 1971
- Distribuzione: 103'
- Genere: Commedia
- Nazionalita: Italia
- Regia: Dino Risi
In nome del popolo italiano è un film del 1971, diretto da Dino Risi. Protagonisti Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman.
Il giudice istruttore Mariano Bonifazi, prototipo del magistrato inquirente profondamente amareggiato dalla corruzione che egli percepisce prima di tutto nella pubblica amministrazione e più in generale nella società italiana sempre più inquinata dall’avidità decadente e immorale del capitalismo più becero e senza scrupoli, scopre che l’imprenditore Renzo Santenocito, archetipo del capitano d’industria disonesto, elargitore di tangenti ai politici compiacenti, avvelenatore della flora, della fauna e delle falde acquifere con le sue industrie chimiche, costruttore di scempi edilizi e deturpatore dell’agreste paesaggio italico, potrebbe essere implicato nella morte della giovane Silvana Lazzorini, una ragazza che spesso accompagnava persone ricche e facoltose a cene e festini per conto di una sedicente agenzia di pubbliche relazioni.
Un’antipatia sia antropologica che politica si manifesta fin dall’inizio del film tra i due protagonisti antagonisti: l’imprenditore Santenocito usa come mezzo di trasporto una rombante automobile sportiva Maserati Ghibli, laddove il magistrato Bonifazi guida un minuscolo ciclomotore a due tempi; l’industriale con la sua Maserati Ghibli dà un passaggio a un figlio dei fiori solo per insultarlo in base alle sue idee di sinistra e al suo abbigliamento. L’accusa di essere un parassita dicendo che per lui i giovani di sinistra, dalla componente operaista ai maoisti insieme agli obiettori di coscienza e agli anarchici, vanno tutti rinchiusi in un campo di concentramento con il filo spinato e messi ai lavori forzati 16 ore al giorno. Il figlio dei fiori ribatte in inglese dicendo di non capire l’italiano, Santenocito allora lo fa scendere imprecando di aver fatto un discorso inutile ed è allora che il figlio dei fiori lo chiama “fascista” e lo insulta dimostrando di capire l’italiano. Il magistrato si reca al lavoro portando sottobraccio il quotidiano L’Unità, allora organo ufficiale di stampa del Partito Comunista Italiano.
Durante il primo interrogatorio a cui l’industriale viene sottoposto da parte di Bonifazi, quest’ultimo chiede all’imprenditore dove si trovava la notte in cui la ragazza è morta. Santenocito contesta immediatamente i metodi del magistrato, ribattendo: «Sa chi sono coloro che hanno un alibi sempre pronto? I delinquenti! Io non ho alibi», sebbene il capitano d’industria dichiari poi di aver trascorso tutta la serata giocando a carte con il suo vecchio padre fino a notte inoltrata. Concluso l’interrogatorio, Santenocito ritorna a casa.
Quindi va a parlare con il padre promettendo all’anziano di regalargli una bella vacanza a condizione che questi sia disposto a testimoniare che loro due avevano trascorso insieme, giocando a carte, la serata nella quale avvenne la morte della ragazza. Il padre non accetta, rifiutando così sia di fornire una testimonianza falsa sia conseguentemente di confermare l’alibi del figlio.
Il giorno dopo Bonifazi decide di recarsi a casa di Santenocito per interrogare il padre e avere conferma dell’alibi. Poco prima dell’arrivo del magistrato però, il padre dell’indagato viene portato via a forza dal personale paramedico di un centro d’igiene mentale: con cinismo l’imprenditore fa così internare il suo stesso padre poiché questi si era precedentemente rifiutato di dichiarare il falso, in caso di interrogatorio dell’anziano genitore da parte degli inquirenti, per aiutare il figlio. Santenocito infatti temeva che il padre, se ascoltato da Bonifazi, l’avrebbe smentito. Invece, una volta fatto rinchiudere l’anziano in una clinica psichiatrica, nessun magistrato avrebbe ovviamente potuto chiamare un insano di mente a prestare deposizione.
Mentre Bonifazi indefessamente s’ostina a cercare di acclarare la colpevolezza, da lui ritenuta certa, dello spregiudicato Santenocito, quest’ultimo cerca con altrettanta ostinazione di rigettare le accuse del magistrato. Dopo pochi giorni arrivano i risultati delle indagini della medicina legale: la ragazza assunse sostanze stupefacenti la notte della morte, inoltre nel cadavere vengono trovate tracce di “Ruhenol”, un farmaco non in vendita in Italia ma facilmente reperibile in Germania.
Bonifazi allora si ricorda che Santenocito, durante il primo interrogatorio, aveva dichiarato di compiere spesso viaggi di lavoro a Berlino. Il magistrato si reca quindi a casa dell’indagato per interrogarlo di nuovo. Santenocito prima si nega e poi, uscendo di soppiatto dalla sua villa mentre di nascosto spia il magistrato, sale sulla sua Maserati Ghibli, percorre qualche chilometro, quindi ritorna indietro in modo da incrociare in maniera artatamente casuale Bonifazi sulla strada e facendo così finta di essere arrivato proprio in quel momento a casa.
Santenocito l’invita a pranzo in una trattoria sul litorale romano e i due passano una mezza giornata insieme, con l’obiettivo da parte dell’industriale di cercare di entrare in confidenza con Bonifazi. Il magistrato intuisce il tutto e lascia fare finché tra i due nasce un nuovo alterco. Bonifazi accusa l’indagato di raccontare menzogne, mentre Santenocito accusa a sua volta il magistrato di “zelo inquisitorio” motivato da “odio ideologico” nei suoi confronti arrivando perfino ad affermare: «Io rappresento tutto ciò che lei odia».
Le indagini di Bonifazi proseguono negli ambienti frequentati dalla ragazza: l’inquirente parla con l’uomo che le procurava le serate, il quale dichiara di conoscere Santenocito. Convocato di nuovo in tribunale, l’imprenditore ammette per la prima volta di aver conosciuto la giovane. A Santenocito viene così contestato di non avere un alibi la sera in cui la ragazza morì. Messo alle strette, Santenocito si rivolge a un amico imprenditore ridotto sul lastrico convincendo quest’ultimo, con la promessa di saldarne i debiti, a depositare una falsa testimonianza. Durante un nuovo interrogatorio, l’indagato dichiara che la sera della morte della ragazza rimase in casa dell’amico fino alle quattro del mattino a parlare con lui di affari.
Ma l’alibi viene astutamente smantellato dal caparbio magistrato. Bonifazi a questo punto ritiene di avere in mano sufficienti elementi per mandare Santenocito sotto processo al fine di sentenziarne, “in nome del popolo italiano”, la colpevolezza per la morte della giovane. Viene quindi disposto l’arresto immediato dell’imprenditore.
Mentre Bonifazi ordina l’arresto, gli vengono recapitati da una scuola di lingue i libri di testo e un quaderno della ragazza scordati nell’edificio scolastico dopo l’ultima lezione d’inglese da lei frequentata prima di morire. Il quaderno in realtà è un diario nel quale gli esercizi di lingua inglese sono frammisti a pensieri personali. Il giudice esce dal Palazzo di giustizia a piedi e si mette a leggerne le pagine. Uno per uno, tutti gli indizi che suffragavano l’ipotesi dell’omicidio, o anche solo dell’omissione di soccorso da parte di Santenocito, cadono: la ragazza non era stata percossa, come pareva a un primo esame del corpo, ma i lividi le erano comparsi quando la sua automobile era stata tamponata. Inoltre, nelle ultime pagine, la giovane dichiara la sua ferma intenzione di uccidersi per amore (ipotesi per altro perfettamente compatibile con le risultanze autoptiche). Bonifazi legge il diario per strada negli istanti in cui la nazionale di calcio vince per la prima volta nella sua storia contro l’Inghilterra.
Tra le urla e gli atti di teppismo dei tifosi festanti, Bonifazi intravede i peggiori vizi comportamentali dell’italiano cialtrone e poco di buono da lui identificato nella persona dell’imprenditore Santenocito. Evidentemente disgustato dai suoi stessi concittadini facenti parte del “popolo italiano”, il magistrato butta il diario della ragazza tra le fiamme di un’automobile inglese incendiatasi dopo essere stata ribaltata dai tifosi italiani, e per di più davanti alla legittima proprietaria, distruggendo in questo modo la prova dell’innocenza dell’avversario e pertanto condannandolo inesorabilmente a scontare un’ingiusta detenzione per un reato insussistente. Il diario brucia e su una pagina appare un appunto scritto di pugno dalla ragazza: “Ruhenol”, il farmaco con cui la stessa commise quindi suicidio.
La partita tra Italia e Inghilterra è in realtà una partita immaginaria; infatti il film è del 1971, ma solo nel 1973 (il 14 giugno, a Torino) la nazionale italiana avrebbe finalmente vinto (2-0) la sua prima partita contro la nazionale inglese, con la quale del resto non giocava dal 1961. L’episodio immaginario fu quindi utilizzato dal regista come simbolico evento epocale in grado di scatenare entusiasmi e gesti sconsiderati. Intervistato negli anni di tangentopoli, ossia circa vent’anni dopo la realizzazione del film, Dino Risi ricordò di aver fatto questo film anche per riflettere già allora sull’ampiezza del potere discrezionale di cui i magistrati dispongono, e di cui forse talvolta potrebbero abusare in nome di un fine di giustizia che giustificherebbe l’uso di mezzi non ortodossi.