Barcellona, una città che si ama follemente o si odia follemente. Il caldo dà alla testa. Smuove quei cavilli che si gingillano, beoti e beati, nella testa. Le ghiandole sudoripare regolano una temperatura corporea eccessiva…Nel film di Allen, nonostante la stagione estiva, i volti sono perfettamente ambrati, puliti, privi di escrescenze, salutari e coperti, a quanto sembra, da uno strato piuttosto spolpante di trucco. La Johansson è l’eterna bambolina, occhi chiari, capelli chiari, minuta e con il solito viso, statico fino alla nausea, da pesce lesso. In molti la considerano esempio di sensualità infinita, tale da destare e carpire l’attenzione. Allen è tra questi. E, se la bocca, combinandosi con un volto moderno, ha una certa frivolezza ed il corpo trasmette, in parte, una vogliosa e dolente disarmonia, tanto da attingere all’imperfezione, e nello stesso tempo ad un’altezzosità rinascimentale, o meglio, vittoriana, ed il senso di scabroso, volubile e scaltro, fatale e libidinoso, si addice alla sua capacità mimetica, molto più che alle superiori, anche a livello estetico, Uma Thurman e Michelle Pfeiffer, ciò che realmente si duole ammettere è la sproporzione dell’aspettativa rispetto al risultato. Le interpretazioni si fanno simili, nessun guizzo. Ed il faccino che ha contribuito, di certo, al successo è un’arma a doppio taglio. Scarlett, dopo gli inizi giovanili e “Lost in Traslation”, lentamente, perde colpi, ed il suo talento non cresce. La sua recitazione è molto diversa da Penelope Cruz, la Maria Elena del film. C’è una diversità di caratteri e le comparazioni non sono semplici. Il punto è che il film è osceno, pedante, irreale (non che sia un male assoluto e non che, procedendo, il tono cambi), traballante, poco ispirato, privo di pathos e d’armonia, di ironia, di fascino, di complessità, fin quando non subentra la Cruz. Bardem interpreta un latin lover indefinito, umorale, occhi socchiusi, passionario e focoso, “maschio” moderno, né carne né pesce. Non è galante, non è squallido. Un personaggio armonico, che, decontestualizzato, avrebbe un suo peso non per l’interpretazione in sé per sé ma, appunto, per il carattere di duplicità. Rebecca Hall è una nostra scommessa. Bella, intensa, riesce nell’impossibile: sopperisce alla mancanza di verve e all’eccessiva asetticità del suo carattere, attraverso lo sguardo, i modi. Poi c’è la Cruz. E siamo su un altro mondo. Popolana in “Volver”, problematica in “Vicky”, ma la locuzione potrebbe essere intercambiabile. Sa quello che fa, e già è un ottimo punto di partenza. Non ha un forte afflato comico, non è un’attrice da blockbuster, ha all’attivo pellicole futili, a volte imbarazzanti. Non è la Streep, non è la Winslet. Non ha tecnica memorabile. Penelope riprende la tradizione della Loren e compagne, cita il cinema italiano del dopoguerra nella forma più moderna possibile, acuendo dosi di introspezione o di contraddizioni, non perdendo la vecchia carica drammatica. Sa quello che fa, e aggiunge qualcosa, talvolta. E’ vernacolare la sua figura, giustamente premiata con l’Oscar, che in realtà sembra più un premio alla carriera dei fasti di Almodovar e al carattere indigeno portavoce di una melanconia spagnola che si racchiude nella forza espressiva degli occhi. “Vicky” non si salva, però, con le interpretazioni. C’è levità senza sostanza. E’ mainstream puro, product placement e cartolina. Ma non rimane nulla, di Gaudì o di Mirò, dei quadri e dell’Arte. La Spagna è così banalizzata, l’amore così calligrafato. La sceneggiatura sembra un pretesto, Allen disorientato, la fotografia sembra integrare la tesi pubblicitaria. Sponsor di una Spagna mentale, più che reale, verbale più che sensuale. Certo, con Allen la sessualità è più che cerebrale, ma il gioco a tre non ha nulla di vitale né di romantico né di cerebrale, né di anticonformista. Un passo falso impietoso, senza margini di salvezza.
Stasera in Tv alle 23:20 Premium Emotion- Vicky Cristina Barcelona
Creato il 25 settembre 2010 da Ludacri87Barcellona, una città che si ama follemente o si odia follemente. Il caldo dà alla testa. Smuove quei cavilli che si gingillano, beoti e beati, nella testa. Le ghiandole sudoripare regolano una temperatura corporea eccessiva…Nel film di Allen, nonostante la stagione estiva, i volti sono perfettamente ambrati, puliti, privi di escrescenze, salutari e coperti, a quanto sembra, da uno strato piuttosto spolpante di trucco. La Johansson è l’eterna bambolina, occhi chiari, capelli chiari, minuta e con il solito viso, statico fino alla nausea, da pesce lesso. In molti la considerano esempio di sensualità infinita, tale da destare e carpire l’attenzione. Allen è tra questi. E, se la bocca, combinandosi con un volto moderno, ha una certa frivolezza ed il corpo trasmette, in parte, una vogliosa e dolente disarmonia, tanto da attingere all’imperfezione, e nello stesso tempo ad un’altezzosità rinascimentale, o meglio, vittoriana, ed il senso di scabroso, volubile e scaltro, fatale e libidinoso, si addice alla sua capacità mimetica, molto più che alle superiori, anche a livello estetico, Uma Thurman e Michelle Pfeiffer, ciò che realmente si duole ammettere è la sproporzione dell’aspettativa rispetto al risultato. Le interpretazioni si fanno simili, nessun guizzo. Ed il faccino che ha contribuito, di certo, al successo è un’arma a doppio taglio. Scarlett, dopo gli inizi giovanili e “Lost in Traslation”, lentamente, perde colpi, ed il suo talento non cresce. La sua recitazione è molto diversa da Penelope Cruz, la Maria Elena del film. C’è una diversità di caratteri e le comparazioni non sono semplici. Il punto è che il film è osceno, pedante, irreale (non che sia un male assoluto e non che, procedendo, il tono cambi), traballante, poco ispirato, privo di pathos e d’armonia, di ironia, di fascino, di complessità, fin quando non subentra la Cruz. Bardem interpreta un latin lover indefinito, umorale, occhi socchiusi, passionario e focoso, “maschio” moderno, né carne né pesce. Non è galante, non è squallido. Un personaggio armonico, che, decontestualizzato, avrebbe un suo peso non per l’interpretazione in sé per sé ma, appunto, per il carattere di duplicità. Rebecca Hall è una nostra scommessa. Bella, intensa, riesce nell’impossibile: sopperisce alla mancanza di verve e all’eccessiva asetticità del suo carattere, attraverso lo sguardo, i modi. Poi c’è la Cruz. E siamo su un altro mondo. Popolana in “Volver”, problematica in “Vicky”, ma la locuzione potrebbe essere intercambiabile. Sa quello che fa, e già è un ottimo punto di partenza. Non ha un forte afflato comico, non è un’attrice da blockbuster, ha all’attivo pellicole futili, a volte imbarazzanti. Non è la Streep, non è la Winslet. Non ha tecnica memorabile. Penelope riprende la tradizione della Loren e compagne, cita il cinema italiano del dopoguerra nella forma più moderna possibile, acuendo dosi di introspezione o di contraddizioni, non perdendo la vecchia carica drammatica. Sa quello che fa, e aggiunge qualcosa, talvolta. E’ vernacolare la sua figura, giustamente premiata con l’Oscar, che in realtà sembra più un premio alla carriera dei fasti di Almodovar e al carattere indigeno portavoce di una melanconia spagnola che si racchiude nella forza espressiva degli occhi. “Vicky” non si salva, però, con le interpretazioni. C’è levità senza sostanza. E’ mainstream puro, product placement e cartolina. Ma non rimane nulla, di Gaudì o di Mirò, dei quadri e dell’Arte. La Spagna è così banalizzata, l’amore così calligrafato. La sceneggiatura sembra un pretesto, Allen disorientato, la fotografia sembra integrare la tesi pubblicitaria. Sponsor di una Spagna mentale, più che reale, verbale più che sensuale. Certo, con Allen la sessualità è più che cerebrale, ma il gioco a tre non ha nulla di vitale né di romantico né di cerebrale, né di anticonformista. Un passo falso impietoso, senza margini di salvezza.
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