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I bambini di Alberona, quando disegnano il loro paese, ci mettono il mare. Non hanno spiagge, ma nelle giornate in cui il cielo è sgombro di pensieri anche loro, dalla terrazza panoramica del borgo, riescono a vedere le Tremiti.
Bisognerebbe raccontarla Alberona: da Foggia ci vogliono 10 minuti per raggiungere Lucera e da qui ne servono altri 20 per arrivare al paese delle fontane. La strada sale lentamente. Antichi portoni fanno da cornice a masserie di cent’anni con uliveti e alberi da frutto. In primavera l’acquerello naturale sembra impazzire, eccitato dai campi di papaveri, distese di rosso e picchiettature di porpora nel verde del grano ancora giovane. A un cento punto del cammino, come dicevo, una quercia ci mette il punto e si va a capo.
Si cambia pagina e paesaggio. La carreggiata, dritta come una lama, taglia in due la campagna. Gli alberi spuntano anche dai tetti crollati di vecchi ruderi fatti di tufo che sembra marzapane. Il primo monumento che s’incontra salendo verso il paese rivela la vocazione letteraria del paese che ha dato i natali a poeti come Giacomo Strizzi e Vincenzo D’Alterio. E’ la Fontana Muta. Dal 1824, questa oasi di silenzio e ristoro parla attraverso l’eterno scrosciare dell’acqua. Più avanti, a volerlo ascoltare, il Muro Architettonico racconta come l’arte e l’amore possano modellare anche la pietra, facendole trovare le forme e le grazie della bellezza.
Pochi passi ancora e in alto, sulla sinistra, una scultura narra un’altra storia, quella del Tenente Andrea Nazzaro, eroe della Resistenza al terrore nazifascista.
LA CASA DEI SANTI. C’è una vecchietta analfabeta che vive a pochi passi dall’Arco dei Mille. Conosce tutte le storie raccontate da tutte le pietre del suo paese, ma non ha lettere per raccontarle.
Mi spiega il concetto con la chiarezza di una lezione di vita. Davanti alla chiesa di San Rocco incontro un’anziana donna senza parole. Mi accompagna dalla perpetua che ha le chiavi della casa dei santi. Me li presentano. Santa Lucia, veglia su di noi, facci vedere lontano. Santa Rita, proteggici dal dolore. San Michele e San Francesco, dateci la forza di cento guerrieri di Dio, la giustizia di mille giudizi universali, la clemenza e la saggezza di capire senza lettere da leggere, senza parole da pronunciare.
Gatti e vedove, ad Alberona, custodiscono vicoli e rose di pietra. Il cielo è così vicino da togliere il fiato. Certi pomeriggi è di un celeste quasi opprimente. In montagna il cielo è senza filtro. Una Lucky Strike a pieni polmoni. Tutto questo spazio può farti sentire in gabbia. Il tabaccaio non sembra preoccuparsene. Col cielo ci parla tutti i giovedì. Si fa il caffè. Ascolta De Andrè. Le piante di San Rocco hanno bisogno d'acqua. E l'acqua non smette un minuto di scorrere, va più veloce del tempo. E il vento fa cadere castagne grandi come sassi vicino alla Cappella del Calvario, lì dove la montagna si avvicina e fa sentire voci e vertigini echeggianti e profonde.
SANCIO PANZA A ROSETO. Da Alberona a Roseto Valfortore il cammino è breve. Si sale ancora. Eolo è il patrono pagano di queste colline. Qui Don Chisciotte troverebbe metallo ed eliche per i suoi denti e a Sancio Panza piacerebbe molto il borgo delle rose. Avrebbe di che saziarsi nel paese del miele e del tartufo. Entrambi, dopo ‘perigliose avventure’, siederebbero accanto nella locanda di Tullio e Manlia. Io me li immagino partecipare alla festa di San Filippo Neri, il 26 maggio: il prode cavaliere, ritto e impettito, renderebbe omaggio al santo con inchino solenne, mentre il suo scudiero si getterebbe a capofitto sotto il balcone da cui arrivano come manna dal cielo pezzi di formaggio, verdure e pane. A Roseto Valfortore incontro il signor Capobianco. Vive in Canada e ogni anno torna per un breve periodo nel suo paese. “I miei figli studiano l’italiano”, mi dice. “A Toronto la nostra lingua la insegnano all’università. Abbiamo sofferto, abbiamo lottato contro il pregiudizio”.
LA POLIZIA A CAVALLO CI CARICAVA. “La polizia a cavallo ci caricava quando ci fermavamo a ridere e scherzare dopo una partita di pallone. Oggi non è più così. Abbiamo sindaci, giudici e governatori di origine italiana. E i figli dei nostri figli ci chiedono dell’Italia, vogliono conoscere i paesi dei loro nonni”. Il signor Capobianco vuole che conosca sua moglie e la sua casa rosetana. Mi ci accompagna. Mi mostrano le foto di famiglia. Nella casetta si mischiano segni e simboli della cultura americana, canadese e italiana: un souvenir di New York, il gadget della squadra di hockey su ghiaccio di Toronto (Toronto Maple Leafs), una copia del “Sud Italia News”, giornale distribuito oltreoceano con “Corriere Canadese” e “Repubblica”. Li ringrazio per l’ospitalità, li saluto e proseguo il mio cammino. Voglio andare oltre, verso la Campania. I Monti Dauni sono la cerniera dell’Appennino, punto di contatto e contaminazione della Puglia con le aree confinanti delle province di Benevento, Avellino, Campobasso e Potenza. Tra Roseto Valfortore e Castelfranco in Miscano c’è qualcosa che attira la mia attenzione.
NELLA TERRA DELLE TITANIDI. Salgo su, fino all’ultimo piano, laddove osano le pale, nell'Olimpo dei giganti del vento, e scopro la terra delle titanidi. Sono altissime, bucano il cielo, oltrepassano le nuvole, danno un senso di vertigine ed equilibrio, un saliscendi che pompa sangue al cuore alimentando paura, eccitazione, meraviglia. Il paesaggio è stato invaso da questi alieni spettacolari. Letteralmente invaso. Potenti, prepotenti, installazioni gigantesche che rimpiccioliscono tutto il resto. Non so quante squadre di calcio, una sulle spalle dell'altra, servano per raggiungere la grandiosa elica sotto la quale vado a mettermi. Si muove con una lentezza pachidermica, ipnoticamente minacciosa, emettendo un rumore lontano, vagamente sinistro. Questi sono dinosauri di ferro e di plastica. Fiori d'acciaio stilisticamente perfetti. Enormi tiranni samurai che roteano spade fuori misura. E' uno spettacolo. E' veramente uno spettacolo. Schiere di enormi tubi sormontati da straordinarie eliche dominano le colline come un contagio. E' come se Golia mettesse le mani in una cesta piena di fichi d'India e per il dolore gridasse con la raucedine. Non c’ero mai venuto prima, qui, sulla strada che da Roseto Valfortore conduce a Castelfranco in Miscano. Non so dire come fosse quando non c'erano le pale, queste meravigliose orribili aliene. Come doveva essere tutto eccezionalmente meno gotico e più dolce senza questi bellissimi mostri.
QUESTA E' LA MIA TERRA. "Questa è la mia terra". Stamattina questa frase mi echeggiava dentro mentre gli AcDc facevano vibrare l'abitacolo sulla strada che da Foggia porta a Giardinetto, direzione Orsara di Puglia. E' bello partecipare ai riti religiosi da imbucato. Nel "paese dell'Orsa" c'è un evento. Dopo 12 anni riapre la Grotta di San Michele. L'Arcangelo guerriero lo festeggiano due volte: a maggio e il 29 settembre. Oggi la statua del Patrono sarà portata a spalla dalla chiesa di San Nicola al tempio di roccia che stava per venir giù. Lo hanno ancorato al costone tufaceo con iniezioni di cemento. Ora è sicuro. Davanti alla Chiesa Madre ci sono i bambini della scuola. Cantano una canzone. "Sii benigno con Orsara", compagno Arcangelo. La statua è pesante. Più che altro pesa la struttura in legno massiccio su cui poggia. Un ragazzo chiede rinforzi. Arrivano. Si parte. San Michele passa davanti all'insegna di Medina: monoteisti di tutto il mondo… Gli "spalloni" imboccano la discesa di pietra. Lentamente. I partigiani del manifesto salutano il più illustre collega che oltrepassa la porta di Pablo Neruda. La grotta è bellissima. Sulla roccia, iscrizioni in latino e segni di riti pagani, tracce clandestine, la luce assente del cristianesimo che fu. Il parroco ferma i fedeli sulla soglia. Bisogna sistemare le sedie, mettere il santo sull'altare, rendere al diavolo meno amara la immutabile e perenne sconfitta posando vicino al suo volto sconvolto due bei mazzi di fiori. Entro prima degli altri. Mi hanno scambiato per un fotoreporter. Basta un oggetto mediatico, una macchinetta, il piglio dell'invisibile estraneità interessata per diventare televisione. E la televisione è licenza, lasciapassare, passepartout che si tratti di sacro o di profano. "Questa è la mia terra. Dove vado sono a casa. Mi piace tutto di lei". Le strade sconnesse. Le colline crocifisse dalle pale. Le nonnette braccianti che prendono la pensione sociale, e ridono sotto i baffi. I nonni Don Chisciotte a cavallo dei trattori. Quelli che siedono sui gradini delle case. I manifesti mortuari alle loro spalle. I palazzi nobiliari andati in rovina. I balconi senza ringhiere. L'anticorodal, sfregio grottesco su blasoni medievali. E la natura selvaggia. I cancelli aperti sui tratturi. Il contagio eccitato di fiori gialli, rossi, viola a gettare anarchia nel regno di sua maestà l'Ulivo.
SUOR VALERIA. A Orsara di Puglia c'è una fortezza. Sono rimaste due torri e un tratto di cinta muraria. Per ammirarle, bisogna passare dal convento delle suore. Bussiamo. Ci vengono ad aprire. Conosco Suor Valeria. Una donna alta, con occhi vivaci e parlantina. Vuol farmi vedere l'asilo. Ne è giustamente fiera. Questo convento è uno spettacolo di pace e di colori. Ogni giorno le suore si occupano di 47 bambini. A loro disposizione ci sono una grande casa di Barbie tutta rosa, enormi sale per giocare, imbrattarsi di colore, disegnare. Ma il loro posto preferito è il giardino. Ci sono i giochi, Biancaneve e i sette nani in riunione permanente, la Madonna in un anfratto di pietre, il gatto senza stivali.
SANT'ALBERTO AVEVA CAPITO TUTTO. Il mio viaggio delle cento città, il 16 maggio, passa per Pietramontecorvino. E’ il giorno di Sant’Alberto Normanno, eremita che scelse come luogo di contemplazione un posto che, parafrasando De Gregori, ‘dimostra in maniera lampante l’esistenza di Dio’. Quel luogo si chiama Montecorvino, un borgo di mille e più anni fa di cui oggi restano una torre maestosa, le rovine di una cattedrale e un fascino difficile da raccontare senza ricorrere alla indefinita categoria del ‘magico’. Si dice che sui Monti Dauni ci siano sempre meno giovani e che i ragazzi, come accade a qualsiasi altra latitudine, s’interessino sempre meno di storia e tradizioni. Posso testimoniare che non è vero. Il 16 maggio, al pellegrinaggio-processione lungo i sette chilometri che separano Pietra da Montecorvino, i bambini e i giovani sono moltissimi. Sono loro a trasportare a braccia i palii di Sant’Alberto, pali di legno, addobbati con scialli e fazzoletti, alti fino a venti metri e pesanti da 100 a 150 chili. Li portano eretti, come aste di bandiera. Alla base del palo sono in quattro a sostenere il peso maggiore. Davanti, dietro e ai due lati altri ragazzi tengono in equilibrio il palio con l’aiuto di lunghe funi. La strada per arrivare alla dimora del santo è poco più che un tratturo. I ragazzi alle funi compiono l’intero tragitto tra il grano ancora verde e la terra arata. I palii vengono trasportati per sette chilometri all'andata e sette al ritorno. Accade ogni anno da 122 anni, da quando il santo normanno, l'eremita di Montecorvino, apparve in sogno a due donne di Pietra dicendo loro che per sconfiggere l’eccezionale siccità del 1889 il popolo avrebbe dovuto compiere un pellegrinaggio e pregare digiuno tra i ruderi della vecchia cattedrale. Al ritorno di quella prima processione a Monte Corvino, la pioggia cominciò a scendere abbondante, i campi si dissetarono e i raccolti, di lì a qualche mese, furono tra i più generosi di sempre. Domenica 16 maggio 2010 è successa la stessa cosa. Abbiamo fatto in tempo ad andare, assaporare salsiccia e frittata, l’ospitalità della gente di Pietramontecorvino, ed è arrivata l’acqua. Qualche anno fa, il cielo anticipò il rito della pioggia e i pellegrini furono investiti da un temporale micidiale. “La processione si fa comunque”, mi spiega l’uomo del bar, “dovessimo tornare senza scarpe, calze e mutande”.
E la processione si fa, pioggia o non pioggia, nessuno si cura delle previsioni meteo. Solo una minoranza sceglie di arrivare alla meta a bordo di trattori e fuoristrada. Sono quelli che portano le provviste e s’incaricano di portare a destinazione i bambini più piccoli e chi non se la sente di farsi la sfacchinata. La maggioranza va a piedi. Tra loro ci sono uomini e donne di tutte le età. Un anziano assessore di Somma Lombardo, padano Doc, rifiuta il passaggio e decide di abbracciare appieno la tradizionale fatica. Io e la mia amica Mariagrazia, per esserci, sincronizziamo le sveglie sulle 06.15. Appuntamento alle 07.20 sotto casa sua. Non abbiamo acqua. Niente panini. Ho solo 2 sigarette, scroccherò dalla socia. Dimentico gli impermeabili cinesi, costo 0,60 euro cadauno, mi tocca tornare a prenderli. Fotografare il sentimento è il nostro obiettivo. Ci mettiamo su strada alle 07.40 in compagnia di Paolo Conte a bordo dell’argentea Zara. Alle 08.10 siamo a Pietramontecorvino, in anticipo di 20 minuti sulla partenza ufficiale. Straordinari. Fa freddo, schizzechea with love. Incontriamo gli ‘ultras’ di Sant’Alberto. Hanno le magliette ufficiali del 122° pellegrinaggio e sono pronti a sudare. Lo spettacolo deve ancora cominciare. Ci sono posti, persone e pietre che dovrebbero restare come sono, per sempre. A fine giornata, mi chiedo come sarebbero stati i luoghi straordinari che ho visitato con gli occhi dei vent’anni. Ogni volta che torno da un’esperienza come quella di domenica mi sento un privilegiato. Ogni volta un viaggio di pochi chilometri, la rivelazione di un altro mondo nel giardino di casa. Un po’ come i rifugi segreti dei bambini che vivono lontani dalle città, dove è ancora possibile costruire tane sconosciute agli adulti. L’odore della terra bagnata, del grano fresco, la continuità di un racconto che unisce affabulazione e autenticità. Gli occhi pieni di un verde mai uguale a se stesso. Campi di cardi, piante selvatiche di ogni forma, alberi la cui chioma dà forma al vento. Vento parrucchiere, stilista, guastatore, malandrino. Ci avviciniamo alla torre come dovessimo espugnarla. In mezzo all’erba alta, arrancando, col fiatone, armati di obiettivo spara scatti. Conquistiamo la vetta e una vista esagerata. Sant’Alberto aveva capito tutto.
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