Un thriller politico decisamente avvincente quello girato da Kevin Macdonald, che tra colpi di scena e timeline del giornale scorre fluidamente per 127 minuti senza mai stancare, con un ritmo brioso e coinvolgente non permettendo allo spettatore di staccare gli occhi dallo schermo. Complice una colonna sonora che alterna ai brani composti da Alex Heffes alcune chicche, tra cui spicca “Long as I Can See the Light” dei Creedence Clearwater Revival. All’ottima riuscita del film contribuiscono sicuramente la mirabili interpretazioni dell’attore neozelandese e di Ben Affleck, che calzano entrambi a pennello i loro ruoli inizialmente affidati a Brad Pitt e Edward Norton. Ma ciò che caratterizza il lungometraggio è il particolare montaggio (curato da Justine Wright, ormai abituale collaboratrice del regista) molto serrato, che alterna ai dialoghi, permeati talvolta di ironia, scene di tensione. La frenesia, il continuo aggiornamento delle notizie, a volte utilizzato per non perdere fette di mercato, e la grande teatralità con cui la politica comunica ci porta in una dimensione stressata e stressante.
Ed è in questo presente di continui “refresh” che si staglia il dialogo-conflitto tra vecchi e nuovi media, tra carta stampata e blog. C’è la crisi di uno storico quotidiano, che si sente incalzare, se non quasi surclassare, dalla versione on-line e che per continuare a resistere deve scendere a compromessi. E come rappresentanti dei due modi di far giornalismo vi è da una parte Russell Crowe (con capello lungo e ribelle), reporter navigato appartenete alla scuola classica del giornalismo d’inchiesta che verifica personalmente l’affidabilità delle fonti, e dall’altra Rachel McAdams, che come tutti i blogger ha dalla sua la velocità degli aggiornamenti. Da cui la diatriba tra il diritto-dovere all’informazione, la ricerca della verità nuda e cruda e le (purtroppo) pressanti ragioni economiche.
E a vincere poi come nelle classiche battaglie tra bene e male è la verità, perennemente ricercata da Cal, che al pari di un missionario si erge su tutti gli altri personaggi, spesso mossi da altri fini ed interessi nelle loro azioni. Egli infatti si configura come simbolo del vecchio giornalismo, “watchdog” che controlla attentamente, si appura della veridicità dei fatti, prima di poter calunniare ingiustamente qualcuno ed infine informa i lettori. Non sceglie di schierarsi dalla parte dell’amico, piuttosto che d’un altro, ma si schiera dalla parte della verità. Nella realtà, purtroppo, a vincere sono spesso le ragioni economiche che quasi mai conciliano con quelle dell’informazione. L’unica pecca a mio avviso è il finale, sorprendente senza dubbio, ma che si lega male con l’intera storia. Di grande effetto invece i titoli di coda che chiudono con l’immagine poetica e nostalgica del giornale che va in stampa.