Giggino e Nic: simul stabunt… (fonte: l'Unità)
Di Luigi Cesaro, alias “Giggino ‘a purpetta”, si ricorderanno il vilipendio sistematico della lingua italiana, l’occhio bovino, la pronuncia e l’aspetto da provinciale, i gessati over size da cafone arricchito. Con l’ovvia (e pericolosa) conseguenza che la dimensione macchiettistica, ossia il folklore di un personaggio che sembra uscito dalle pagine di uno dei (tanti) capolavori che tra i Settanta e gli Ottanta, prima di scomparire prematuramente, quel geniaccio di Attilio Veraldi andava componendo sulla MalaNapoli, prenderà facilmente il sopravvento sulla “sostanza” della sua – tutt’altro che breve – parabola politica. Su tutto ciò che egli ha rappresentato negli anni del berlusconismo e del cosentinismo trionfante in Campania. Gli anni in cui, come testimoniano ormai migliaia di atti d’indagine raccolti in decine di inchieste sui clan casalesi, si è realizzata la perfetta fusione fra economia, politica e crimine organizzato. Ambiti che, fin dai tempi dei primi “guappi” del dopoguerra, avevano sempre “triangolato” all’ombra di affari miliardari, ma non erano mai diventati una cosa sola, conservando sempre ciascuno la propria autonomia.
L’operazione non era riuscita nemmeno a Raffaele Cutolo, il boss che per primo cercò di trasformare la camorra in una holding sul modello delle grandi aziende “legali”, e che pure con la politica aveva interloquito da una posizione di forza e di ricatto all’epoca della trattativa per il rilascio di Ciro Cirillo. Come ormai tutti sanno, la storia giudiziaria di Giggino ‘a purpetta comincia proprio dai suoi rapporti con il padrino di Ottaviano, anzi con la sorella Rosetta. Condannato in primo e secondo grado per queste relazioni pericolose, fu clamorosamente riabilitato dai giudici del Palazzaccio di piazza Cavour. Anzi, da un giudice: Corrado Carnevale, estensore della sentenza che annullava “senza rinvio” il verdetto di colpevolezza della Corte d’Appello di Napoli. Ma quel passato non è mai passato del tutto, se è vero che, nell’ordinanza trasmessa alla Camera, il gip di Napoli ricorda un episodio del 2011 (quando Cesaro era deputato del Pdl e presidente della Provincia di Napoli): un’intercettazione ambientale in cui Cutolo suggerisce ad un nipote in cerca di lavoro di rivolgersi proprio a lui, la “purpetta”, per risolvere il problema.
Eh sì, perché, mentre il fondatore della Nco intraprendeva la sua lunga carriera di sepolto vivo al 41 bis nelle carceri di massima sicurezza di mezza Italia, la scampata condanna per camorra aveva ringalluzzito Giggino, che si era buttato in politica, sponda socialista. Diventando in breve assessore del suo comune, Sant’Antimo, hinterland napoletano in cui i Cesaro controllano buona parte dell’economia: dal cemento alla sanità privata, a un mega centro sportivo in cui il Milan organizza le leve calcistiche per le sue giovanili, nonché soggiorno fisso per la prima squadra in occasione delle trasferte di campionato e coppe in Campania. Anche da assessore, però, Giggino finisce nella rete dei magistrati. E si fa persino un periodo abbastanza lungo di latitanza, prima di consegnarsi ai carabinieri. Ora, un pentito racconta che ai tempi delle amministrative di Sant’Antimo, per fare il pieno di voti, ‘a purpetta e la sua famiglia, il capostipite Francesco, che tutti in paese chiamano don Ciccio, i fratelli Raffaele e Aniello (arrestati pure loro) e lui, Giggino, l’unico laureato della schiatta (in legge) adottavano il metodo laurino. Il mitico Comandante, distribuiva tra i lazzari di Napoli migliaia di paia di scarpe “a rate”: una calzatura prima del voto, l’altra dopo le elezioni. I Cesaro, invece, tagliavano a metà le banconote da 50mila lire. Prima il ritratto del Bernini, dopo tutto il resto.
Dice: uno così è bruciato per sempre. O almeno, cerca di defilarsi. Macché. La discesa in campo più funesta della storia repubblicana (1994) riporta in auge Giggino, il quale diventa famoso nell’entourage berlusconiano per i pacchi di mozzarelle di bufala che personalmente recapita quasi ogni settimana ad Arcore. Con la “zizzona” di Aversa (che una volta tanto non è il nome di battaglia di una escort) ‘a purpetta prende il Cavaliere per la gola. Ma, esattamente come il suo sodale, con cui dal ’94 in poi comincia a viaggiare in tandem, Nicola Cosentino, figlio di Silvio ‘o ‘mericano di Casal di Principe e rampollo di una facoltosa famiglia impegnata fin dal dopoguerra nel ramo petroli, per conquistare il cuore del leader di Forza Italia Giggino ‘a purpetta utilizza un altro argomento. I soldi. La potenza economica sul territorio. E, insieme ad essa, i rapporti opachi con certi ambienti che, ad ogni elezione, mettono a disposizione la propria straordinaria forza di persuasione per stabilire chi deve vincere e chi deve perdere.
Giggino e Nic sono gemelli fisicamente diversi (‘o ‘mericano ha giocato a calcio in gioventù, e si mantiene in forma correndo ogni mattina nel Parco della Reggia vanvitelliana di Caserta, di cui possiede le chiavi), ma politicamente sono monozigoti. Rappresentano l’investimento che due famiglie di imprenditori fanno nel nuovo corso politico che si apre con l’irruzione sulla scena pubblica italiana del tycoon di Arcore. Da quel momento, la Campania diventa il laboratorio perfetto del berlusconismo come cultura di potere. Una sorta di paradigma. Gli intrecci tra politica e affari si fanno inestricabili, all’ombra di patti scellerati con il terzo incomodo, la camorra. E’ il periodo della “fusione”, mirabilmente sintetizzata da una frase che Giovanni Cosentino, il primo dei cinque fratelli di Nicola, nonché amministratore delegato della Aversana Petroli, la cassaforte di famiglia, rivolge ad un altro imprenditore, trascritta nell’ordinanza d’arresto che l’ha colpito lo scorso 3 aprile: “Per i soldi ci sono io, per la politica c’è Nicola, se necessario abbiamo a disposizione anche la forza”.
Dal racconto che il pentito Luigi Guida, alias “‘o drink”, ha fatto ai magistrati antimafia di Napoli, risulta che lo stile Cesaro e lo stile Cosentino erano identici. Ma questa è materia della magistratura. Sul piano politico, dopo aver conquistato tutto quello che c’era da conquistare in Campania (solo il Comune di Napoli sfuggì alla loro campagna), ultimamente i rapporti tra i due si erano interrotti bruscamente. Successe in occasione della mancata candidatura di Nic alle ultime Politiche: l’ex sottosegretario si sentì tradito non solo da Berlusconi, che negandogli la rielezione di fatto lo spediva in carcere, ma anche (e soprattutto) dal “gemello” di Sant’Antimo, che non aveva mosso un dito per impedirne la giubilazione e, nel frattempo, aveva messo in campo la terza generazione. Il primogenito Armando, diventato dirigente dei giovani di Forza Italia in Campania.
Lui, ‘a purpetta, ultimamente quasi evitava di farsi vedere in giro, tutto casa e Montecitorio. Nemmeno più le mozzarelle ad Arcore, portava; aveva intuito che il clima era ormai da cupio dissolvi, e aspettava solo che si compiesse un destino già segnato. Il carcere. Probabilmente, quello di Secondigliano. Lo stesso in cui è rinchiuso Nic. Il gemello diverso di una lunga stagione di commissariamento criminale della democrazia nella più grande regione del Mezzogiorno.
...intanto con giggino ed i suoi compagni di merenda voi ci governate assieme da tre anni e ci volete cambiare la costituzione...
Leggo questa frase, che ferisce profondamente chi - come molti di noi - si è avvicinato al PCI col ritratto della faccia di Enrico Berlinguer stamparo sulla retina, e non ho niente da dire, niente da obiettare... Se non che io e pochi altri ci siamo rifiutati di salire sul carro del renzismo, che poi altro non è che il proseguimento del berlusconismo con altri slogan. E non mi resta che osservare con tristezza che ormai sono trascorsi quarant'anni dall'ultima volta che sono stato felicemente orgoglioso di qualcosa, e di qualcuno.
Tafanus
2207/0630/1130