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Stefano D’Arrigo: Codice siciliano

Da Narcyso

Stefano D’Arrigo, CODICE SICILIANO, Mesogea 2015

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Chi conosce il grande romanzo di D’Arrigo, “Horcynus Horca”, ritroverà in queste poesie, soprattutto nel primo poemetto, “PREGRECA”, lo stesso clima di mito e di destino che costituisce lo scheletro del romanzo.
L’emigrazione del siciliano è vista come un andarsene via comunque, in un luogo che è persino dentro se stessi, atavico, così come atavico non può che risuonare lo stile, costruito dentro uno sperimentalismo interno al suo stesso essere, in sintonia con la grande letteratura di quegli anni ma non con le mode, le maniere.
In effetti l’aspirazione di D’Arrigo sembra essere il ricongiungimento a “una lingua che non so più dire”, lingua radicata, non sbandierata o ricreata; piuttosto riscritta a partire dai sostrati, da un senso di appartenenza.

Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga

In questo “conservatorismo” linguistico si può riconoscere il tema del radicamento agli archetipi dell’isola, fuga e ritorno, tragico e comico, sublime e realismo.
Chiarissimi gli echi di Dino Campana, di Salvatore Quasimodo, e cioè un clima alto e notturno che collega la riflessione a un movimento musicalissimo – del suono dentro la parola e dell’andare e venire incessante che attraversa gli esseri tutti -.
La retorica della lingua è piegata da un sapientissimo lavoro sulle immagini, mentre le metafore sembrano approdare alla realtà superiore del simbolo; si legga il poemetto dedicato alla madre, “Versi per la madre e per la quaglia“, chiaro riferimento al Saba dei versi a Lina, e quindi manifesto non per niente simulato di onestà intellettuale, di una sincera adesione alle ragioni degli umili e alle esigenze di una parola che li sappia raccontare e riflettere.
Il senso di queste poesie credo possa essere ricercato in una presa di posizione di stampo culturale oltre che poetico, operazione accostabile, anche se in misura più sfumata, a quelle di altri intellettuali poeti, penso a Danilo Dolci, Sebastiano Addamo, Santo Calì, tutti interessati a un’attenzione che sappia congiungere presenza e distacco, riconoscimento del karma e nello stesso tempo urlo, polemos, denuncia.
Come dice Silvio Perrella nell’introduzione, effettivamente un siciliano che emigra ha bisogno di preservare il suo codice, approntare, cioè, un catalogo minimo fatto di luoghi, oggetti, persone, favole. Il nostos è una dimensione dello spirito, della dimenticanza persino in noi stessi, ed è naturale, dunque, che queste poesie possano essere apprezzate soprattutto da chi avverte la precarietà della vita e la necessità della resistenza.

da PREGRECA

Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece.
Alle marine, nel fragore illune
delle onde, per nuvole e dune
a spirale di pallide ceneri
di vulcani, alla radice del sale,
discesi dall’alto al basso
mondo, figurati sul piede
dell’imbarco come per simbolo
della meridionale specie,
spatriavano, il passo di pece
avanzato a più nere sponde,
al tenebroso, oceanico
oltremare, al loro antico
avverso futuro di vivi
(…)

***

da VERSI PER LA MADRE E PER LA QUAGLIA
1
Per me è morta, ormai volata via
dalle mie mani nel cielo d’infanzia
la quaglia d’Africa: più non si imita
col verso d’oro che implora la vita.

2
I cani fanno le tenere brume
col fiato nel verde delle lattughe.
Da noi li separa un velo di piume,
la quaglia uccisa, madre, le tue rughe.

Da GIOVENTU’ QUI CI PASSA AD ANNODARE

1
e’ sera e ci diciamo a Sud: – Italia – ,
noi maschi, fumando, sottovoce,
sulla riva del mare in un’estate.
Un nome, il Nord, l’antico futuro,
l’amico un nulla sussurra all’amico,
profilo appena di donna lontana
sulla moneta, la nostra ventura.
Ma Italia oh come nulla colora
in bocca a noi, avvenire di cafoni,
oh come fra le dita qui si onora
la sua capigliatura di moneta,
quella chioma più lunga della vita.


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